Giornalista, fotografo e direttore di “Suntime Magazine”, un autentico professionista (per chi non lo conoscesse è stato per anni direttore di oltre 10 testate giornalistiche spaziando dal settore viaggi, cinema, moda, cultura ecc.), Giuseppe De Pietro si racconta con noi, ripercorrendo alcuni momenti della sua vita e della sua carriera.
di Anna Maria Ruffo
L’immagine più bella è, forse, quella che qui non vedete. La spiaggia di Nicotera deserta, una scenografia metafisica. Gli ultimi e lunghi raggi del sole accendono il mare di riflessi abbacinanti. Giuseppe De Pietro è un puntino lontano, che si tuffa tra le onde che increspano appena la superficie. Questa volta da solo. Qualche bracciata, poi riemerge, si riveste con pochi gesti veloci, e coi capelli ancora bagnati saluta tutti e se ne va, sorridendo. Selvaggio, per davvero, era il periodo dei figli dei fiori il 1970.
Cos’è l’estate per te?
«Ci pensavo mentre posavo abbracciato all’ombrellone, anche se più volte non portavo nemmeno quello, mi sono coccolato per qualche istante nelle estati del mio passato. Ho come l’idea di aver formato tutto di me, d’estate. La mia era una famiglia contadina, vivevo a Roma ma per due mesi mi trasferivo nella campagna di Nicotera, la mia terra e lì succedevano cose».
Quali cose?
«Ci si innamorava, regolarmente. Tutte le mie estati sono state delle avventure di ragazze che incontravo nella vicinanze del Club Mediterranée, ma poi ho incontrato Clara ero felice con lei. Mi vestivo (quasi) di tutto punto con capi che compravo a Hammamed, Mikonos, Ibiza, Algarve, Marakesh ecc. per incontrare quello che ci piaceva: la ragazza bagnino, la ragazza francese di buona famiglia a cinquecento metri più in là. Stavamo in spiaggia tutto il giorno per farci vedere, per scambiare sguardi. Ci buttavamo senza pensieri in qualcosa che era sentimento, cuore, passione. Volevamo innamorarci, baciarci: il desiderio, anche quello sessuale, era un motore della vita sociale. Ci bastava una canzone per innamorarci, e talvolta ci bastava una canzone per piangere perché era finita».
Ecco: e quando finiva…?
«Non dimenticherò mai quando cominciavano le prime piogge di settembre e dovevo ritornare a Roma. “Quella lì non la vedrò mai più”: erano momenti tristi».
E oggi?
«Oggi sono un uomo sugli ottanta, le mie estati sono altro. Una cosa però la voglio dire, e credo sia molto paterna. Un po’ li conosco i ragazzi di oggi – non parlo di mio figlio Valentino, perché ormai me l’ha vietato categoricamente – e noto che i giovani hanno un’enorme difficoltà a innamorarsi, ad abbandonarsi alle carezze».
Come mai?
«Tutta colpa dei social: c’è la paura del giudizio, del bullismo. Quando ero giovane io, eravamo tutti più spensierati: ci si innamorava con uno sguardo, ci si lasciava per un tradimento. Oggi il tradimento è una gogna: se lasci una, vieni punito. Vorrei che i ragazzi buttassero via i loro telefonini e vivessero, che seguissero i loro desideri, che si mettessero un bel costume per andare in spiaggia o un bel vestito per andare in discoteca e che si baciassero, che facessero l’amore. Vorrei che capissero che innamorarsi, lasciarsi, piangere, tradirsi, passare ad altro… tutto fa parte della vita».
L’estate è per antonomasia la stagione dei tradimenti. Nel 1970 hai raccontato: «La libertà per me viene al primo posto. Non posso pensare di appartenere a qualcuno, il nostro matrimonio funziona da tanti anni perché io ho avuto come pensiero un piede fuori e Clara lo sapeva, se bene talvolta ci abbia sofferto, anche se poi non l’ho mai fatto. E se dovesse capitarmi solo uno scambio di parole e poi finisce lì. Non mi faceva paura il fatto di essere infedele, io la pensavo come gli svedesi. I sentimenti veri che io vivo oggi, però, sono un’altra cosa».
«Non ho nulla di nuovo o di interessante da aggiungere sull’argomento. Semplicemente, ho sempre pensato che lasciare o essere lasciati, essere traditi o tradire siano esperienze da vivere con più leggerezza, e su questo nell’area mediterranea non sempre la pensano allo stesso modo. E mi preme che i giovani di oggi lo capiscano».
Quando sono finite le sue estati dei baci in discoteca?
«Quando ho cominciato ad avere una famiglia. Oggi non vado più a Nicotera: non c’è più quell’idea di trasferimento – andavamo con la mia BMW giù con le valigie, mia moglie Clara ed il figlio Valentino, il cane, il gatto non l’avevo – anche se, qualche volta c’è sempre quell’idea di tornare, per trovare i miei la mia terra con vigneti, agrumeti ed uliveti, ora tutto questo non c’è più, comunque, in qualche modo un po’ cambiata».
La sua vacanza ideale, quella che ancora non ha fatto: con chi e dove?
«Ah, che bel pensiero… Io comunque, lo considero un viaggio, non tanto una vacanza; ciò significa conoscenza, cultura, rapporto con la gente, conoscenza del folclore, usi e costumi, buon cibo. Quest’anno, come del resto gli ultimi anni, sarà di nuovo un’estate da soli io e Clara. Ma non escludo, anche quest’anno, di poter scappare in un luogo sconosciuto con mia moglie in Provenza forse».
Una fuga d’amore?
«Diciamo che facciamo bellissime vacanze. Ma potendo sognare…».
D’estate si sente ancora, in qualche modo frizzante, diciamo così … “friccicarello” per dirla alla romana?
«Lo sono, ma per me. Ho 82 anni, e lo dico perché me li porto discretamente: il mio lato “friccicarello” oggi sta nell’allontanarsi per un po’ dal quotidiano, nel fare passeggiate nel parco davanti casa la mattina, nel vestirmi per andare a cena in un bel posto, partecipare ad un evento in una Ambasciata. Però penso, senza dubbio, ecco… non mi corteggia nessuna donna ormai».
Difficile credere che per strada o sul bus non c’è qualcuna che la guarda.
«È così. Sarà che oggi mi sento libero come mai prima: il peso dello sguardo e del desiderio femminile mi ha a lungo dato soddisfazioni. Talvolta si sono rivelate de buone amicizie. Oggi non è più così, molto meno».
E com’è oggi?
«Oggi so vedermi in un altro modo. Sono uno che sa di aver costruito qualcosa, di aver pestato serpenti, di aver superato momenti di difficoltà, compresa qualche patologia. Diventare grandi è faticosissimo. Essere accettati e accettarsi, pure. Anche per via di questa mia attività di fotografo prima e giornalista poi, mi ha dato grandi soddisfazioni conoscendo i grandi della terra e viaggi in luoghi dove molti vorrebbero andare. A volte: a una certa età non ero più adatto a seguire i giorni dell’Alta Moda, incontrare personaggi del cinema, la TV, l’arte, ecc. quell’uomo attivo, che ero sempre stato».
Lei è affascinante in qualsiasi cosa faccia: le foto, le interviste, i reportage di viaggio, il suo sguardo, il suo modo di distrarsi. Ne è consapevole?
«Non lo sono veramente. Sono così come mi vede, non ho maschere, sono autentico se si può dire. Ho lasciato andare ormai anche la seduzione, me ne sono liberato, ho mollato la cima. Quel gioco ormai non mi appartiene più. Per rispondere alla sua domanda: forse sì, oggi però so di non essere guardato più con occhi affascinati. Ma per quello che sono, per il mio vissuto».
Aver deciso, proprio in questo momento della sua vita, di scrivere un libro sulla civiltà contadina di Nicotera che significato ha?
«Tanto per cominciare, sono contento di conservare memoria del mio vissuto da adolescente. A un certo punto tutti i miei coetanei vivono una vita da pensionati e basta. Sì lo sono anch’io, ma ancora dirigo il mio giornale di viaggi da 25 anni “Suntime Magazine”. Mentre mi rado al mattino mi guardo allo specchio e sono contento di quello che vedo. In questo, credo di aver anticipato i tempi».
È facile invecchiare?
«Sì».
È uno che se la tira?
«No, in quanto penso le mie origine contadine, a piedi nudi nell’orto mentre mio padre irrigava».
“Così dolce, così perversa” sa raccontare come pochi il suo ritorno fortunato in Italia dopo aver vissuto vent’anni in Argentina, in quanto catapultato come fotografo di scena sul set. Il Pino De Pietro di allora, accanto ad attori di livello internazionale, chi si immaginava sarebbe potuto diventare?
«Non pensavo davvero a niente: ero un ventisettenne, fotografavo le scene e poi me ne andavo in giro per la Maremma con la Giulietta della truccatrice o quando ci siamo trasferiti con la troupe a Parigi per altre scene. Non sapevo nemmeno come avvenisse il rodaggio di un film. Allora per me era solo un gioco estivo.».
E come ha vissuto quel che è successo?
«Mi ha travolto: non ero assolutamente preparato ma me la sono spassata, né la desideravo».
Ha spesso dichiarato di non aver desiderato qui a Roma continuare a fare il fotografo di personaggi famosi e che a spingerla è stato il suo amico Mario Ortolani, che l’ha poi presentato al produttore Dino di Laurentis.
«Quando me l’ha detto nell’ufficio di via Condotti angolo via Belsiana, più che altro, non ho avuto il tempo di pensarci».
Ricorda quando, invece, si è sentito davvero un fotografo importante?
«Sì all’epoca collaboravo per la rivista Stern di Amburgo. Allora ho avuto l’incarico di seguire, se pur saltuariamente Papa Wojtyla. Per la prima volta nella mia vita stavo collaborando contemporaneamente per riviste italiane come Epoca, Panorama e l’Espresso ed altri, ma anche per settimanali spagnoli come Personas, Semana, Diez Minutos e francesi come Paris Match.».
Quali sono le tre interviste e servizi fotografici che, secondo lei, hanno cambiato e/o influenzato il genere per sempre?
Ci sono certamente delle interviste che hanno fatto la storia e che mi hanno lasciato il segno. La prima che mi viene in mente è quella fatta a Claudia Cardinale nella sua casa in Via Flaminia Vecchia; quella stessa sera era deceduto mio padre Salvatore che ho riscontrato poco dopo aver telefonato mia madre della triste notizia. Un’altra occasione quando mi trovavo al Partito Comunista, lì ho conosciuto Pier Paolo Pasolini in occasione di una conferenza di Enrico Berlinguer. L’intervista fu apprezzata dalla rivista “Personas” di Madrid. Una’altra intervista e fotografie a Jorge Luis Borges, all’Hotel Ambasciatori in via Veneto con cui ho avuto una grande soddisfazione conoscendolo.
E cosa ha capito?
«Che fare i fotografo non è stata una mia scelta, che il successo è arrivato quando ero giovanissimo, e che è stato come se non avessi più saputo come fare a tirarmi indietro. L’autostima ha faticato a venire a galla. Ma, per fortuna, ci sono anche aspetti bellissimi dell’invecchiare: questo, per esempio. Per chi ha vissuto intensamente la vita, ogni passaggio d’età è una vera conquista».
Guardandola oggi, come le sembra la sua carriera?
«È sempre stato un po’ su e un po’ giù, e la ragione è che ho scelto molto, sempre seguendo il desiderio e l’istinto di andarmene da un’altra parte rispetto a dove ero. Mi scocciava essere esattamente quello che la gente si aspettava che io fossi».
Le manca qualcosa?
«Un reportage di viaggio in Polinesia, per esempio, me l’aveva proposto il Direttore del Turismo della Polinesia che avevo incontrato alla BIT a Milano, In quel periodo dirigevo la rivista Roma Sposi ed ho rifiutato, non me la sentivo di fare oltre 20 ore di volo per arrivare a Tahiti».
La sua dote più grande come fotografo e successivamente anche come giornalista negli anni ’80?
«La verità: saper portare elementi di me stesso e della mia vita nelle immagini fotografici».
Il suo «ruolo giornalistrico della vita» è già arrivato o potrebbe ancora arrivare?
«Morissi domani, sarei ricordato per i miei viaggi in giro per l’America Latina…ho ancora i negativi delle mie foto fatti da quelle parti».
Come sta l’editoria italiana?
«Non possiamo non confrontarci con quello che sta succedendo. Da una parte il giornalismo di una volta è in declino contro la mancanza totale di lavoro: Dall’altra, la verità, grave e vergognosa, che sta emergendo e che mi fa incazzare: per anni con il tax credit sono stati elargiti milioni di euro pubblici, senza i dovuti controlli, finiti a editori tendenzialmente politicizzati per periodici che li leggevano in pochi. Dovrebbero andare in galera. È arrivato il momento della pulizia e dell’ordine».
Spesso ha dichiarato di essersi vergognato per non aver studiato, per quella che ha definito la sua «ignoranza». In tutti questi anni crede di avere imparato abbastanza?
«“Non ho mai nascosto la mia età perché ero troppo impegnato a nascondere la mia ignoranza”, ho detto. Bella frase, no? Non sono uno da libri, non mi sentirà mai dire: “Adesso mi prendo la laurea”. Però sono stato molto dentro la vita, i viaggi mi hanno formato molto. No, non mi capita più di non sentirmi all’altezza».
Ha anche detto: «Sono figlio di contadini, di borghese non ho nulla». Qualcosa contro la borghesia?
«Lo penso veramente. È molto importante come nasci, te lo porti dietro tutta la vita. Ho vissuto in una casa dove sotto c’era la stalla dell’asino, talvolta mi mancavano il caldo. Ci fai per sempre i conti con quelle mancanze. In cambio però, dalla stanza dove dormivo sentivo l’odore inebriante del vino che veniva dal fondo della casa dove i miei tenevano le tre botte di vino magliocco tondo».
A Nicotera, provincia di Vibbo, il paese della sua infanzia, ci torna mai?
«Prima ci andavo con mia moglie e mio figlio Valentino: ci andavo, quando c’erano i miei, almeno ogni tre mesi. Di buon mattino mi recavo subito in campagna a guardare i frutteti, l’orto. Andavo a vedere il fiume Tuccina scorrere dove mia madre andava a lavare i panni, penso alla casetta fatta di fango e paglia, lì mangiavamo durante la giornata. Poi, mancando i miei ho deciso di vendere quel luogo. Mancando i miei, non ero più tanto interessato a stare troppo attaccato alle radici. Le radici ci sono comunque, e forti, in quello che ti insegnano i tuoi genitori».
Di sua madre ha parlato spesso. E suo padre?
«Ricordo quando abitavamo a Buenos Aires. Poco, forse perché furono tempi duri alternati ad altri più piacevoli. Al mattino, quasi all’alba raggiungevo mio padre al mercato all’ingrosso, da lì spingendo il carretto di frutta e verdura, ci portavamo nel vecchio quartiere di San Telmo. Il dialogo con i clienti era comico in quando dialoga in calabrese e spagnolo, comunque destava simpatia, era bravissimo. Io provavo a stargli dietro, verso le due del pomeriggio mi prendeva una Coca Cola e tornavamo verso casa».
Secondo chi crede di conoscerlo, i suoi colleghi e gli amici, Giuseppe De Pietro è quello che…?
«Quanto mi piacerebbe saperlo! Spesso mi dicono che sono sincero, accogliente e generoso. Non se lo aspettano da me».
E cosa non capisce, di lei, i suoi conoscenti?
«In questo momento mi sento percepito, visto, voluto, capita».
Lei è una persona simpatica?
«Secondo me sì».
Intelligente?
«Non tantissimo. Di un’intelligenza molto pragmatica, o comunque istintiva».
Lo vediamo sempre molto composto e misurato: c’è qualcosa che lo fa divertire fino a perdere il controllo?
«Quest’impressione che ha, un po’, mi dispiace. Ecco, forse questo tra la gente che conosco non ha capito di me: io sono uno che emana allegria. Però forse è anche vero: alla fine è come se mi trattenessi…».
Ancora qualche domanda: se dovesse realizzare un reportage per tutta la vita, quale preferirebbe?
«Madonna, che bello! Ricordo ancora il reportage che hai fatto nel ’69 in Perù nelle vicinanze dell’Amazonia! Io e i miei due colleghi per poco, non avremmo dovuto affrontare tre puma vicino la selva. Un pò di paura certo, me lo potevo permettere, avevo ventisette anni, con un animo diverso!».
Deve per forza cancellare qualcosa della sua carriera di fotografo e giornalista. A cosa rinuncia?
«Ho fatto dei servizi fotografici ed articoli inutili, non interessavano a nessun giornale, ma non al punto tale da condizionarmi la mia carriera. Dei servizi fotografici per Playboy quando allora lo dirigeva Paolo Mosca non c’era proprio bisogno».
E, nella sua vita, che cosa non rifarebbe?
«Molte volte mi colpevolizzo, per esempio di essere stato un padre non tanto vicino a mio figlio, le ho sempre voluto molto bene. Ma non è grave. Non c’è niente che proprio non rifarei: mi viene sempre questa voglia di tornare indietro, penso che non sempre tutti hanno avuto la mia fortuna».
In che senso?
«La mattina faccio questo esercizio: mi guardo allo specchio, mi tocco tutto, le braccia, il corpo, ho bisogno di “sentirmi”, noto che le rughe non sono tantissime. E mi dico: “Va tutto bene: bravo, bravo! Strano, non avere dubbi!”. E mi sento così bene. Ma non è mica stato facile: ci ho impiegato tutta una vita per riuscire a dirmelo».