di Giuseppe De Pietro

Certe emozioni vanno vissute di persona, non per sentito dire. L’Islanda è un posto difficile, e strano, non solo per questo. Ma per via del tempo che cambia, come se qualcuno, lassù, si divertisse a fare zapping (a Reykjavík si dice: “se non ti piace che tempo fa, aspetta cinque minuti”), e dell’eredità di quel via vai di navi vichinghe che hanno lasciato regole strambe. Ad esempio, i cognomi, così come li intendiamo noi, non esistono, sono la somma del nome di tuo padre più il suffisso “son” o “dottir” (figlio e figlia); e poi tutto, ma proprio tutto, qui, è proprietà privata, anche l’enorme ghiacciaio Vatnajökull o i terreni da cui sbuffano i geyser. Anzi, il geyser, che poi si chiama Strokkur, perché il Geyser originale non sbuffa più da tempo. I turisti, ma anche gli islandesi, gettavano pietre nell’apertura, pensando che stimolasse l’acqua bollente a uscire a fiotti. Risultato: il Geyser, quello che dà il nome a tutti i geyser del mondo, è stato tappato. Pare per sempre. A pochi metri di distanza Strokkur continua a meravigliare chi passa, sparando acqua a cento gradi sino a 40 metri d’altezza. Lo fa quando gli va, senza preavviso, quattro volte nel giro di pochi secondi per poi magari placarsi per lunghi minuti.

In Islanda, i viaggiatori vogliono andare tutti a Vik, perché è sul mare, è vicino a splendidi faraglioni, ma soprattutto è facile da pronunciare. E sembra una stupidaggine, ma psicologicamente darsi come meta Hvannadalshnùkur o Kirkjubæjarklaustur di per se è già è un’avventura. Anche la piana di Þingvellir, con quella strana lettera, lascia interdetti, ma è una tappa irrinunciabile: è il luogo in cui nel 930 dopo Cristo è stato fondato il Parlamento più antico d’Europa (l’Alþingi). Sorge sulla faglia che divide Europa e America, una striscia di terra che si allarga tre centimetri all’anno, dando la sensazione che davvero l’Islanda sia una delle cerniere che tiene insieme il mondo.

Un altro nome difficile che nessuno conosceva al di fuori dell’Islanda fino all’eruzione di alcuni anni fa era Eyjafjallajökull. È il vulcano che, per giorni, interruppe, con le sue ceneri, ogni collegamento aereo in Europa. La gente, prima, lo snobbava lungo la strada che porta all’imponente Vatnajökull. Ora è una tappa obbligatoria a suon di “ti ricordi”. Un contadino della zona che rischiava di diventare povero per via di quell’eruzione, è diventato ricco. Ha lasciato una parte della sua fattoria così come l’aveva lasciata il vulcano, l’altra l’ha trasformata in museo: ingresso 10 euro. Tra le cose che ti porti via dall’Islanda, a parte la sabbia lavica prelevata dalla spiaggia, c’è la sensazione di sapere pronunciare la parola che fece impazzire i giornalisti in tv. Si dice, più o meno, Eia-Fiatla-Iökutl.

Andando a est, si arriva allo Jökulsárlón, un lago a due passi dal mare in cui danzano iceberg e foche. A poca distanza ci sono i ghiacciai preferiti da Hollywood, dove si girano le scene sotto la neve di blockbuster come “Guerre Stellari” o “Interstellar”. Il resto è fatto di cavalli a perdita d’occhio, bassi, tozzi, molto islandesi, cascate uscite da Narnia, onde del mare che fanno movimenti mai visti ad altre latitudini. E poi la sensazione di dormire sulla Luna, in un posto dal nome che pare scelto apposta per evocare un luogo dell’immaginario, il paesaggio lunare all’alba nell’avamposto di Nupar. C’è, in questo splendido nulla islandese, un hotel alto quanto un container e davanti 570 chilometri quadrati di lava nera d’estate, neve bianchissima d’inverno. Lì, lontano da tutto, puoi aspettare i colori del’aurora boreale. L’arcobaleno sulle cascate di Skógafoss: larghe 25 metri e alte 60. Che poi è il motivo per cui tanti vanno in Islanda, finché non vedono l’Islanda.

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