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INTERVISTA SENZA COMPLESSI A CARLA BRUNI
di Antonio Di Pietro (Ginevra)
Modella, cantante, madre, Première Dame: Carla Bruni non smette di cambiare pelle. E per non soffrire del giudizio altrui ha un metodo collaudato da anni, personale : «All’inizio pensavo che intitolare l’album semplicemente con il mio nome non significasse niente di particolare. Credevo solo di non aver trovato un’idea brillante, poi ho capito che non era casuale e che più in là del sentire il disco molto personale giocare di sottrazione segni un ritorno se non alla purezza, un’ambizione eccessiva, almeno alla semplicità»
Delle molte vite di Carla Bruni c’è un graffio in ogni quaderno. Da anni raccoglie i pensieri e li scrive di getto, un po’ «perché i taccuini sono i nostri decenni», un po’ perché gli appunti di viaggio accumulati curva dopo curva, come in questo caso, sono diventati storie da cantare. Bozzetti e ritratti, a volte ilari, altre malinconici.
Che sentimento prevale adesso?
«Sto bene come sta bene chi ha concluso la sua piccola impresa personale. Posso giocare di paradosso senza essere presa alla lettera?».
Giochi pure.
«Scrivere un album è proprio come aver avuto un bambino. Lei li ha? Se li ha, saprà che quando un bambino sta per nascere avviene qualcosa di pazzesco e che poco dopo, all’ispirazione dell’attesa, delle promesse e dei sogni, subentra un’atmosfera meno alata, più fisica e concreta. Vedi questo piccolo oggetto che hai creato e sai che quel che è stato fatto, è stato
fatto».
Il disco è un oggetto fisico in un periodo in cui ogni gesto fisico, complice la paura, è negato all’origine.
«Sono stata chiusa in casa a scrivere e a registrare e posso dire di essere stata fortunata. Della solitudine ho bisogno: perché non si compone un disco in mezzo alla folla e perché da sola sto molto bene. La solitudine mi restituisce pace e serenità. L’altro è sempre uno sforzo, un’emozione, una scossa. Ma non sempre hai voglia di una scossa».
Che scossa le ha dato questo irripetibile 2020?
«Se giro lo sguardo vedo dietro le spalle un anno di terribile dolore. Un conto è la solitudine per scelta, un altro quella forzata. Quella è crudele e fa male. Soprattutto per gli anziani perché a 90 anni, di solitudine, si può morire. A mia zia o a mia madre, confinate in casa, molto anziane, con gli affetti a distanza terrorizzati dal contaminarle, è quasi successo. C’è voluta fantasia per evitarlo».
Che cos’è la fantasia per lei?
«Una facoltà cognitiva. Benedico il mio povero cervello che, pur avendo molte cose che non vanno, di fantasia è dotato. La fantasia mi accompagna fin da bambina, è un dono naturale e un rifugio indispensabile. A scuola non ero brava e quel sogno covato da ragazza, diventare medico, non si sarebbe mai potuto realizzare. Lì ci vuole metodo. Ma metodo e fantasia non sono parenti stretti».
La sua epifania musicale?
«Quando ero bambina ascoltavo i miei suonare il piano. Prima che mi entrassero nel cuore Brassens, Bob Dylan, Aretha Franklin, i Clash o De André, a trafiggermi furono Mozart, Schubert e Verdi».
Si trasferì a Parigi da bambina.
«Un riflesso degli anni di piombo. Del timore dei sequestri. Del rapimento di Giorgio Garbero, il nipote di Orfeo Pianelli, che aveva quattro anni e venne sequestrato a un metro da dove vivevamo, a Torino, in un giorno di ottobre del 1977. Gli anni di piombo furono pesanti. Quando rapirono Aldo Moro ero già in Francia, parlavo con i miei amichetti in una stanza e a un tratto in casa sentii fermarsi ogni cosa. C’era un silenzio grave, un’aria di minaccia. Di paura costante».
Negli anni a venire lei non ha avuto paura di cambiare spesso abito: dalle passerelle alla musica, dalla libertà al vincolo del matrimonio.
«Per me la paura è la radice del coraggio, il suo sintomo, la sua origine. Io non ho paura della vita, ma solo della morte e dell’imponderabile. Ho paura che succeda qualcosa ai miei bambini, ma sicuramente non ho paura di cambiare. Anzi, cambiare ha rappresentato una ricchezza e un’opportunità. Mi ha permesso di non annoiarmi».
Lucio Dalla diceva: «Forse la noia è soltanto paura».
«Quando eravamo bambini, se osavamo dirci annoiati, ricevevamo risposte ironiche: “Ottimanotizia”, ci dicevano gli adulti, “annoiatevi un altro po’”».
Per la sua morigeratezza, all’epoca in cui sfilava regolarmente, la chiamavano “Boring Carla”.
«Non ero votata alle notti in bianco e agli stravizi, ma da modella mi sono divertita. Era un mestiere allegro, che mi per- metteva di viaggiare ovunque e di scoprire il mondo, anche se l’ambiente era indubbiamente feroce e competitivo. Sa qual è la verità?».
Qual’è?
«Che Paul Nizan ha probabilmente torto e che non è detto che la post-adolescenza sia per forza di cose un periodo infelice. Non per tutti almeno. Per mio marito lo è stata, ma io ho adorato avere vent’anni: all’orizzonte non c’era ancora l’idea della morte».
Mi ha parlato di competizione. Che rapporto ha con l’invidia?
«Posso essere gelosa di chi amo così come posso essere invidiosa, ma poi non tanto. Sono la più piccola della famiglia, dopo di me non è nato nessuno e da ragazzi avevamo molti privilegi».
Il più importante?
«Avere dei genitori molto libertari e soprattutto assenti. Al contrario di noi vivevano nel loro mondo e non nel nostro. La mancanza di controllo per noi è stata un’occasione di straordinaria libertà».
Si è liberata dello sguardo altrui?
«Più di trent’anni fa. Con una tattica a metà tra distrazione e indifferenza che si è rivelata molto utile».
Dica.
«Se qualcuno mi osserva non penso mai che ce l’abbia con me. Non frequento la paranoia né alimento vettori che potrebbero darle linfa. Quando mio marito era presidente non leggevo niente e non guardavo niente che ci riguardasse. Tanto quando ha un’immagine pubblica non c’è niente da fare».
In che senso?
«Non puoi controllarla. Dipende dagli altri, da un punto di vista esterno, da un’impressione, da un convincimento o da un pregiudizio: qualsiasi cosa tu faccia. Incontravo persone che mi squadravano dalla testa ai piedi perché magari i giornali dicevano cose orrende, ma avevo un vantaggio. Non lo sapevo. Ero tranquillissima».
Lei con l’immagine pubblica convive da sempre.
«E magari ne ho anche bisogno. Negare che sia stata importante sarebbe ridicolo. Alla mia immagine sono riconoscente».
E alla sua famiglia diseguale in odore di anarchia?
«Molto riconoscente. L’ambiente che lei definisce anarchico mi ha resa migliore. Me ne sono resa conto crescendo, da piccola non lo capivo fino in fondo. I miei genitori non erano moralisti e non giudicavano mai nessuno. Giudicavano al limite sentimenti come la cattiveria o inclinazioni come l’avarizia: “Quello è così tirchio, non incontriamolo più”».
L’assenza di giudizio non è lo sport contemporaneo.
«Il mondo di oggi è pieno di giudizio: è come se ci fosse un tribunale permanente appoggiato lì e pronto a intervenire a ogni battito d’ali, a condannare, a biasimare».
Lei ha scoperto solo dopo molti anni che suo padre naturale, Maurizio Remmert, non era l’uomo che l’aveva cresciuta.
«Il marito di mia madre a sua volta aveva avuto altre storie perché a loro tempo si erano già capiti e perdonati in una totale equivalenza di vedute e diritti. Per quanto ne so potrei avere anche altri fratelli, forse non in Nuova Zelanda o in Svezia, ma magari a Torino».
Che sensazioni ebbe quando scoprì la verità?
«Fu un momento di totale sollievo. Il turbamento se esisteva si era manifestato prima. Su di me avevo una strana impressione, ma tutti i bambini hanno l’impressione di essere strani ed estranei nella loro famiglia, così come forse quelli che scrivono immaginando di essere stati abbandonati sulle scale di una chiesa o in un paniere». (Ride).
Si sentiva diversa?
«Anche io, come tutti a quell’età. C’era un segreto, ma non una menzogna. Il segreto è il fratello buono della bugia, è un mistero, un non detto. La menzogna invece è un veleno perché non costruisci un’identità su una bugia. Quando ho avuto l’ultimo pezzo del puzzle mi sono sentita sollevata».
A che età ha incontrato l’amore?
«Quello non fisico? Prestissimo. Ma tanto dà gli stessi sintomi. I primi amori sono stati mia madre, mia nonna e una tata, Teresa, che amavo profondamente. Poi venne un ragazzo di nome Peter, avevo 9 anni, che incontravo durante l’estate nel sud della Francia e che mi sembrava proprio il principe azzurro e poco dopo Andrea Di Stefano, a cui un po’ più tardi diedi il primo bacio. Platonico o non platonico l’amore è sempre prepotente. Si fa spazio e prende possesso di te».
Aveva detto che non avrebbe mai pensato di sposarsi.
«Ho cambiato parere a 40 anni quando mi credevo matura. È stata una sorpresa incredibile perché come dice Jacques Lacombe l’amore è par hasard, per caso. È una cosa che ti fa cambiare completamente parere, una cosa per cui giri le spalle a tutti i tuoi principi e alle tue idee in pochi secondi e senza alcun rimorso. Sei pronto a qualsiasi contraddizione, per amore».
E gli amici?
«Sono i fratelli e le sorelle che scegliamo, gli amori senza desiderio, quelli che sappiamo di poter tenere con noi per tutta la vita. L’amicizia è una grande forma di amore primordiale. Ho letto di un sultano che ha fatto una festa con mille amici intimi: ma chi è che ha mille amici intimi? Di amici veri io ne ho pochissimi, di tanto in tanto ne arriva uno nuovo e c’è un colpo di fulmine. Ci si perde e poi ci si ritrova. Purtroppo non abbiamo abbastanza tempo per vivere l’amore e l’amicizia».
Lei è stata sempre considerata bellissima.
«Non voglio sembrare scema nel dire che non mi sentivo e non mi sono mai sentita bella, ma è la verità. Mi ritengo fortunata perché bella mi vedevano. Invecchiare mi dispiace, non tanto per la bellezza, ma per la salute. La bellezza sfiorisce e rimane la grazia, il fascino: ciò che mi piace e mi è piaciuto trovare negli altri in questi anni. Anche negli occhi di chi se ne è andato troppo presto».
Cosa resta di chi va via?
«Il sogno un po’ mistico di incontrarsi di nuovo. Magari succede».
Magari?
«Con l’età sono diventata prudente».