di Francesco Clemente
Anthropocene è un’esplorazione multimediale che documenta l’indelebile impronta umana sulla terra: dalle barriere frangiflutti edificate sul 60 per cento delle coste cinesi alle ciclopiche macchine costruite in Germania, dalle psichedeliche miniere di potassio nei monti Urali in Russia alla devastazione della Grande barriera corallina australiana, dalle surreali vasche di evaporazione del litio nel Deserto di Atacama alle cave di marmo della nostra Carrara e a una delle più grandi discariche del mondo a Dandora, in Kenya. L’intento è chiaro: mostrare inequivocabilmente, quindi con documentazione fotografica e video soprattutto, di cosa l’uomo sia stato capace negli anni. Di avanzare nell’ambito delle scienze e della tecnologia certamente, ma a scapito del proprio pianeta che flagella continuamente.Rossi e gialli danzano nel crepitìo delle fiamme che continuano a ravvivarsi per 350 ore. È un giorno veramente speciale il 30 aprile 2016, quando nel Nairobi National Park (Kenya) viene appiccato il fuoco alle cataste di tonnellate di zanne d’elefante e corni di rinoceronte sequestrati negli anni. Immagini potenti, ipnotiche, con cui si apre il pluripremiato film documentario Anthropocene: The human epoch (2018) prodotto dagli artisti Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier e Edward Burtynsky. Non si è fatto abbastanza per salvare quegli animali (prima della colonizzazione europea in Africa esistevano 20 milioni di elefanti di cui oggi ne rimangono circa 352 mila), ma almeno nessuno potrà usare il loro avorio per creare oggetti ornamentali. L’odore della morte porta con sé il senso del rispetto, come sottolinea Winnie Kiiru dell’organizzazione Stop Ivory davanti alla videocamera.
È un progetto impegnativo e coerente quello del team degli artisti canadesi che insieme agli scienziati dell’Anthropocene Working Group hanno dato via alla mostra multimediale Anthropocene presentata per la prima volta in Europa alla Fondazione Mast – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna (fino al 22 settembre) con la curatela di Sophie Hackett, Andrea Kunard e Urs Sthael. Non c’è modo di tornare indietro all’epoca in cui la natura dominava l’uomo, ma certamente prendere consapevolezza dei problemi attraverso una memoria generazionale è un punto di partenza per guardare avanti. È il primo passo di quello che gli artisti stessi definiscono un atto di resilienza. C’è voluto un anno di progetto e quattro di lavoro intenso, a quasi tutte le latitudini e longitudini del globo, per osservare le specie esistenti e procedere con una sorta di catalogazione che si sposta dal generale al particolare. «La dimensione estetica è una parte dell’equazione. Una bellezza che può essere anche terribile», afferma il fotografo Edward Burtynsky, mentre sullo schermo dell’auditorium del Mast scorrono immagini potentissime: dalla barriera corallina indonesiana nel Komodo National Park alla miniera di potassa di Berezniki in Russia; dalle cave di marmo di Carrara alle foreste malesi disboscate per piantare le palme da olio, alle vasche di evaporazione del litio nel deserto cileno di Atacama. L’«invasione umana» – duemila anni fa vivevano sulla terra tra i 200 e i 300 milioni di esseri umani, attualmente si contano circa 7,6 miliardi di persone – con le trasformazioni del pianeta declinate in diverse maniere, è lo stesso Urs Sthael ad elencare estrazione mineraria, urbanizzazione, industrializzazione, proliferazione delle dighe con la deviazione dei corsi d’acqua, eccesso di CO2, acidificazione degli oceani dovuti al cambiamento climatico e presenza di materiali creati dall’uomo come la plastica, il cemento, i tecno-fossili come cause tra le più evidenti del fenomeno chiamato antropocene.
Un fenomeno pieno di contraddizioni in cui la parola progresso deve essere riscritta alla luce delle tante riflessioni suggerite nell’ambito stesso della mostra Anthropocene in cui l’esplorazione multimediale ha la forza di coinvolgere il pubblico in un’esperienza decisamente immersiva, attraverso l’utilizzo di fotografie a colori di grande formato, murales ad alta risoluzione e videoinstallazioni dove il lavoro sinergico dei tre artisti è integrato dall’applicazione Avara, scaricabile gratuitamente sul proprio smartphone/tablet o sui tablet messi a disposizione dal Mast. Ecco, allora, che l’osservatore si può avvicinare sempre di più alla realtà, ad esempio vivendo l’esperienza della vita quotidiana nel mercato di Mushin, tra voci e suoni di clacson, nel ritmo convulso di Lagos (Nigeria), capitale economica dell’Africa Occidentale o guardando i movimenti dell’ultimo esemplare di rinoceronte bianco (Sudan), deceduto il 20 marzo 2018 a Nanyuki (Kenya).