di Simona De Pinho
Omaggio alla visionarietà furibonda e poetica del pittore e alla sua forza sciamanica delle sue imitazioni “animali” Uno sguardo partecipe e commosso sui suoi atteggiamenti inconsulti, sulla capacità di amare e saper ricevere amore; sulla desolante solitudine.
“Quando Ligabue si vede alla ribalta, a noi pare di avere di fronte lo stesso artista nella sua immensa solitudine, immerso nella follia e nel delirio.
Celebra il genio visionario di Antonio Ligabue nel cinquantenario della morte, avvenuta proprio il 27 maggio 1965, il libro pubblicato da Castelvecchi, nel quale il critico Marzio Dall’Acqua ripercorre la vita dura e travagliata del pittore e scultore, solo in parte addolcita dalla sua smisurata passione per l’arte. Arricchito da numerose illustrazioni, è un racconto biografico basato su documenti originali per offrire una minuziosa descrizione dell’odissea familiare dell’artista, segnata da abbandoni, miseria, fragilità psichica e difficoltà di apprendimento. Ma anche per offrire la rilettura del mito Ligabue, sregolato e folle, e al tempo stesso lasciare il passo all’artista, che fu capace di creare un nuovo linguaggio espressivo, all’epoca scandaloso e irrituale, ma oggi presenza imprescindibile del ‘900 italiano.
Antonio Ligabue ha infatti dipinto, inciso e scolpito raffigurando animali, paesaggi, automobili, scene circensi e di caccia, e tutte le sue opere restituiscono un tumulto di sentimenti inesprimibili a parole. Artista autodidatta, ha incarnato la figura del genio irregolare e visionario, che Dall’Acqua mette sotto i riflettori ricostruendo (novità del libro) la trama dei rapporti umani, da cui scaturirono sia sofferenze infinite sia la possibilità di partecipare alla vita culturale del tempo. Se nella galleria dei personaggi che hanno intrecciato con l’artista relazioni profonde e importanti, figurano protagonisti come Marino Mazzacurati o Cesare Zavattini, la vicenda umana di Ligabue non può prescindere dai contrastanti rapporti con i genitori naturali e quelli adottivi, con i compaesani e tutti quelli che hanno deriso la sua produzione pittorica e plastica (senza dimenticare le straordinarie incisioni) popolata da animali domestici e feroci, paesaggi svizzeri e padani, interni, ritratti, autoritratti.
Antonio Ligabue nasce a Zurigo nel 1899 dalla bellunese Maria Elisabetta Costa, emigrata in Svizzera e non sposata. Il cognome Ligabue con il quale diventerà famoso è interamente inventato da lui ”come a segnare una nuova origine – scrive Dall’Acqua – un ripartire senza passato, contando solo con le proprie forze”. Ancora giovanissimo, cresciuto con una coppia matura che l’aveva informalmente adottato, viene espulso dalla Svizzera per la sua vita turbolenta e, nell’agosto 1919, arriva a Gualtieri, il paese d’origine di Bonfiglio Laccabue, l’uomo che la vera madre aveva sposato nel 1901. L’impatto con il nuovo ambiente si rivela da subito triste e doloroso per lui che fin da piccolo aveva manifestato un carattere lunatico, indomabile, aggressivo, tanto che già in diverse occasioni era stato in ospedali psichiatrici.
”Ligabue era molto gentile con gli altri, anche se una naturale timidezza lo rendeva impacciato – racconta l’autore – all’inizio comunicava a gesti, poi iniziò ad apprendere l’italiano in una forma rudimentale, ricca di espressioni dialettali…..Di sé parlava in terza persona”. Inizia a disegnare ”su fogli di carta trovati occasionalmente”, nelle pause di lavoro, mentre i compagni lo deridono ”per la goffaggine, per l’inesperienza nei lavori manuali, la scarsa resistenza alla fatica, l’estraniarsi in un mondo privato.
Lo chiamavano il tedesco”.
Finisce per rifugiarsi nei boschi del Po, ”spinto dalla difficoltà di comunicare con gli altri, dall’avvisaglia di crisi personali, dall’incomprensione nei confronti della sua vocazione artistica”. In questa solitudine, rivela Dall’Acqua, ”inizia a vestirsi da donna” indossando ampie gonne, biancheria candida, mantiglie ”per avere un illusione di calore femminile e per vincere la malinconia e la disperazione”, come lo stesso artista confessò a Raffaele Andreassi che ”lo riprendeva mentre compiva questi rituali”.
Rituali che tornano nel momento creativo. ”All’atto del dipingere, Ligabue si preparava immedesimandosi in ciascuno degli animali che avrebbe rappresentato, adattando il proprio corpo, altrimenti goffo e deforme, a riprodurne le movenze.
Gesti magici, come cerchi per terra, rafforzavano la preparazione. Pennellate rapide con gesti veloci, decisi. Poi si allontanava di scatto, per vedere l’insieme. Se il quadro non rispondeva alle sue aspettative lo colpiva con la testa. Seguiva un raccogliersi su se stesso, in posizione fetale, abbracciandosi le gambe e lamentandosi con suoni brevi, tra il gemito, il sospiro e il verso, come in un segreto compianto per un dolore inconsolabile, dal quale poteva sollevarsi all’improvviso per ricominciare a dipingere o nel quale poteva rimanere prostrato per ore, inerte e vinto”.
Sui soggetti, sottolinea Dell’Acqua, si è molto discusso ed è stato ipotizzato che Ligabue avesse trovato ispirazione sui libri di zoologia ottocenteschi della Biblioteca Maldotti di Guastalla oppure su litografie popolaresche. ”Ma finora – scrive l’autore – non è stato possibile indicare un solo caso nel quale Ligabue abbia esplicitamente ‘copiato’ , quasi che attingesse a un’iconografia che appartiene a un inconscio collettivo, atemporale, astorico”. Del resto, ”molte immagini le assorbiva dal cinema, che amava molto”.