Astor Piazzolla, ricordi stupendi!

di Giuseppe De Pietro

Era il ’73 credo, mi pareva che Astor Piazzolla non se la passassi bene, in quei tre anni che aveva vissuto a Roma. Sono andato a farle un servizio fotografico per mandarlo in Argentina per conto della rivista “Claudia”, anche se non venivo quasi retribuito, le foto mi piaceva vedermeli pubblicati. Abitava in un appartamento nella via degli antiquari, in Via de Coronari, a pochi passi da Piazza Navona, in Centro.
Mi raccontava che i nonni erano italiani –per parte materna invece erano di origine Toscana e paterna, della città di Trani, in Puglia-, suo “padre” negli anni ’80 aveva visitato quella città, d’origine di suo nonno Pantaleón. Mi dice; “Ero stato anche al Municipio, dove mi fecero vedere all’anagrafe che ci sono centinaia di Piazzolla ed è rimasto felice”.


“Tramite video conferenza raggiungiamo Daniel Piazzolla che lo vediamo mentre rigira tra le dita una sigaretta spenta, grazie a suo figlio Pipi, batterista jazz del gruppo Escalandrum, “La Rivoluzione del tango, un lavoro intimo e potente che sbarca in Italia per i cento anni dalla nascita del simbolo del tango moderno. Pianista dell’ottetto elettronico che a fine anni Settanta ha portato in giro per l’Europa il disco Libertango, Daniel ci racconta un padre egocentrico e sanguigno, ossessionato dalla propria musica, che nel 1959 obbliga la famiglia a seguirlo a New York, in cerca della gloria che Buenos Aires gli nega.

Quale fu il pretesto per abbandonare l’Argentina?
“Mio padre disse di avere una promessa di lavoro alla Paramount, per scrivere colonne sonore: invece era solo un numero di telefono che un compositore, George Greeley, gli aveva lasciato un paio d’anni prima, nel caso fosse andato in America. Quando mio padre chiama, gli dicono che quel tale era morto”.
Però rimanete nella Grande Mela.
“In condizioni pessime. Passiamo tre anni spaventosi. Non c’erano soldi, in casa scarseggiava tutto. Io avevo studiato pianoforte dai 6 ai 13 anni, mi avevano detto che avrei continuato alla Juilliard School, la scuola dei migliori. Ma arrivati a New York non c’erano i soldi nemmeno per un insegnante di quartiere”.

Come fu il ritorno in Argentina?


“Tornammo a Buenos Aires senza un soldo, mio padre aveva venduto i diritti del famoso tango Adios Nonino per comprare i quattro biglietti di sola andata, in una nave cargo”.
A proposito di Nonino: chi era?
“Nonino è stato il miglior padre e il miglior nonno del mondo. L’unica persona a cui Astor ha dedicato un tango. Diceva: “Grazie a Nonino sono quello che sono”. Ci ha sempre aiutato, non so come facesse, da New York ci mandava soldi tutti i mesi”.

Si dice che qualche affare l’avesse.
“È vero, distillava whisky clandestino. Lui e Nonina avevano un alambicco in cantina, e portavano il whisky ai nostri cugini italiani, i Bertolami, anche loro poverissimi. Tiravano avanti con l’alcol di contrabbando. Nonino guidava un sidecar: dietro di lui Nonina, e nel carrozzino il piccolo Astor con una coperta addosso, e sotto la coperta tutto pieno di whisky. Attraversavano il fiume Hudson ed entravano in New Jersey”.
Il documentario Piazzolla. La rivoluzione del tango di Daniel Rosenfeld mette in scena una complicata relazione padre/figlio.

“Astor è stato un buon padre, ma non mi ha mai detto “Mi manchi”. Ti avvicinavi per dargli un bacio e ti evitava, s’irrigidiva, diventava di legno. Invece di abbracciarti si metteva in guardia”.
Eppure c’è un momento in cui lui le chiede di stargli vicino.
“Mi dice: “Vieni, che mi voglio sparare”. Era l’agosto del 1974 e si era appena separato da Amelita Baltar (cantante con cui Piazzolla ebbe un’intensa relazione, ndr). Doveva essere davvero molto giù per chiamare me (ride). Viveva a Roma, in via dei Coronari. Nel 1973 aveva avuto un infarto, in Argentina, e se n’era andato in Italia per comporre, con un contratto del produttore Aldo Pagani, un pirata, ma anche un grande inventore. Astor lo odiava, ma è grazie a lui che ha sfondato in Europa”.
Sarà stato felice di vederla a Roma.
“No, perché mi ero portato dietro un sintetizzatore. Astor lo vede e comincia a insultarmi. Quando poi comincia a capire cosa può fare quello strumento, impazzisce e comincia a infilarlo in ogni cosa che registra, soprattutto colonne sonore di film. È a quel punto che mi dice “Voglio parlare con te””.
Parole d’affetto, vorremmo sperare.
“”Tu sei mio figlio e non puoi sbagliare”, mi dice. Così, per cominciare. “Registrerai con me, ma ti pagherò la metà perché sei mio figlio”. Me lo ha detto una sola volta nella vita: “Se sbagli faccio una figura di mierda””.
È la vigilia di Libertango.
“Esatto. Venne registrato quell’anno a Milano, con i migliori musicisti d’Italia, Pino Presti al basso e Tullio De Piscopo alla batteria. Ricordo un grande rispetto per mio padre. La tappa italiana è stata breve ma fondamentale per lui, per quanto poi dicesse che tutto quello che aveva fatto in Italia aveva “odore di pizza”. Faceva apposta, rifiutare il passato era normale per lui. Una volta, a Punta del Este, in Uruguay, arrivò a bruciare tutti i suoi spartiti. “Devi essere egoista” ripeteva in italiano, “io penso per me e Dio pensa per tutti””.
Un presunto ritorno al passato sarà poi la ragione del vostro distanziamento.
“”Stai facendo un passo indietro”. Queste cinque parole mi sono costate dieci anni di silenzio. Astor aveva annunciato per radio che avrebbe sciolto l’ottetto in cui suonavamo insieme, per riformare il suo vecchio quintetto. Fu una questione d’orgoglio. Volevo solo colpirlo dove poteva fargli più male. Se lo avessi insultato, non gli avrebbe dato così fastidio. Mi accorsi subito di aver detto qualcosa di gravissimo, mi avrebbe preso a calci, glielo lessi in faccia. Nessuna discussione violenta tra noi, ma un silenzio durato dieci anni, dal 1978 al 1988. Nessuno dei due ha mai fatto un passo indietro. Io sapevo di mancargli, come lui mancava a me. Che due enormi pelotudos”.
Ci fu un ultimo incontro tra voi?
“Sì, a Buenos Aires. Io gli dico che non ci vediamo mai, e lui mi risponde:  “Lo sai perché? Perché io sono molto importante”. Mi dice proprio così: “Non mi vedi mai perche io sono un tipo molto importante”. “Sì lo so” rispondo, ma dentro di me l’avrei picchiato. “Bene” gli dico “ci vediamo allora”. Quando l’ho rivisto, semiparalizzato, non era più lui”.
Come furono gli ultimi tempi?
“Nell’estate 1990 mi dice per telefono: “Sto bene, ma non posso scrivere neanche una nota”. Qualcosa stava cominciando a funzionare male nel mate (testa, in lunfardo, ndr). Il 5 agosto una trombosi cerebrale lo mette ko. Era quasi del tutto muto, più che altro grugniva, con la faccia deformata dalla paralisi. I medici dissero che non mi avrebbe riconosciuto, non come un figlio, almeno. Una settimana prima di morire io e mia sorella Diana gli regaliamo un pigiama: “Ecco un regalo per il miglior padre del mondo” diciamo. E lì lui fa cenno di no, come per dire “Non sono io”. Sapeva che eravamo i suoi figli, e sapeva di non essere stato il miglior padre del mondo”.
Le manca?
”Vorrei parlargli. Chiedergli cosa pensa di tutto questo, adesso che è diventato popolare dappertutto”.
Che eredità lascia Astor Piazzolla?
“Un alfabeto tutto suo. Basta un suono per sapere che è lui. Conosco la musica di mio padre a memoria, in ogni dettaglio, ed è la musica più bella che c’è. E lui, uno dei musicisti più prolifici, alla pari di Mozart, Beethoven, Bach. Piazzolla lo suonano e lo suoneranno tutte le orchestre del mondo, nei secoli dei secoli”.
Come se lo ricorda?
“Suonando il piano e componendo, a un ritmo infernale. Voglio ricordarlo così, con un portacenere enorme: per spegnere la sigaretta non lo guardava, andava alla cieca mentre scriveva e suonava, per non perdere tempo. E lo svuotava in continuazione, perché fumava 6 pacchetti al giorno di Chesterfield corte senza filtro. Fumava e componeva, con i tasti del piano gialli di nicotina”.