Montagne, ghiacciai, cascate, foreste vergini. E fumosi saloon, taglialegna barbuti e treni diretti nelle miniere d’oro. Abbiamo attraversato il mitico Inside Passage e siamo partiti alla scoperta del più grande e selvaggio territorio.
di GIUSEPPE DE PIETRO
La mia Alaska: un viaggio, terra selvaggia e incontaminata, diventando una delle mete per viaggiatori più apprezzate e avventurose.
Dopo l’uscita del libro e del film Into the Wild tanto che oggi è un un vero e proprio luogo di viaggio. L’Alaska è un territorio affascinante, ma è anche pieno di pericoli come orsi o fiumi impetuosi da attraversare.
Sono stato in Alaska in un periodo che il freddo e nevoso a Natale. La lotta per la sopravvivenza dei primi pionieri contro quella natura così aspra e inospitale ha scaturito dentro di me il richiamo di quei luoghi senza tempo, infiniti e selvaggi; conservando per tanti anni il sogno di visitare l’Alaska: il mio sogno. Io che avevo già fatto un viaggio in Patagonia, mi è sempre rimasto il timore di spostarmi da solo, decido così che prendo coraggio ed esaudirò il mio sogno.
Continuo a pensare, per tanto tempo a progettare e a preparare l’attrezzatura tra mille dubbi, tante paure e anche tante delusioni ma poi finalmente il gruppo si costituisce e ben presto arriva il giorno della partenza. Ed eccomi lì all’aeroporto di Fiumicino ad incontrare quelli che fino ad allora erano per me soltanto un’immagine profilo sul mio Mac.
Ricordo che la prima impressione del mio gruppo di colleghi fotografi e giornalisti non fu la migliore, ma mi resi conto che i pregiudizi sono inevitabilmente parte integrante dell’animo umano e quello che è successo in quel viaggio mi ha insegnato quanto mi sbagliavo.
Imbarchiamo così i nostri enormi zaini, pieni di attrezzature, di pensieri e di sogni e voliamo alla volta di New York dove facciamo scalo a Denver per trascorrere la nottata. Da Denver raggiungiamo finalmente Anchorage.
Atterriamo con gli occhi che brillano di un misto di eccitazione ed euforia, la stessa che si prova quando si realizza un sogno. Siamo lì in quella terra tanto lontana denominata “Alaska no limit” e la nostra avventura sta per avere inizio!
Inizia così il nostro viaggio in Alaska, ci sistemiamo a bordo di due enormi monovolumi, che per 20 giorni sarebbero state le nostre navi madri, stipandole all’inverosimile di bagagli, taniche di acqua potabile, cibo e tante ma tante risate. Battezziamo i due equipaggi Yoghi e Bubu dal nome con cui ci chiamiamo alle ricetrasmittenti.
Da subito si presenta quella che sarebbe stata la nostra più fedele e inseparabile compagna di viaggio per i restanti giorni: la pioggia. Ma l’ottimismo ci fa credere che il maltempo passerà e così facciamo tappa da Rey Store dove facciamo incetta di tutto l’equipaggiamento che non è stato possibile imbarcare sull’aereo, perlopiù cibi liofilizzati e bombolette di metano. Compriamo anche sei spray antiorso, necessari per accedere ai parchi, simili a piccoli estintori rappresentano l’unica difesa contro i grandi predatori di questa terra.
Viaggiamo alla volta di un campeggio, dove trascorriamo la notte divisi in diverse tende fisse montate su una sorta di palafitte, rialzate vicino ad un torrente. La notte vicino al circolo polare artico non è buia, è più simile ad un crepuscolo e fatico a prendere sonno anche a causa del notevole fuso orario. La mattina quando mi sveglio, mi ritrovo proiettato nella mia adolescenza: il rumore del ruscello, l’umidità di una tenda e l’odore di pineta bagnata dalla pioggia. Mi sembra di essere tornato in Calabria, nella campagna a San Francesco, a Nicotera; manca soltanto il latte delle capre di Compare Mico, quello proprio non c’è! Consumiamo invece una sostanziosa colazione americana all’insegna del burro e del colesterolo in un chioschetto messicano. Piove e nostro malgrado decidiamo di rinunciare ad addentrarci nel Parco del Denali, la pioggia infatti non ci permetterebbe di goderlo a pieno, e ripieghiamo sul Trek dei tre laghi. Percorriamo un sentiero di poco fuori il parco dove l’Alaska inizia a rivelarsi a noi per come l’avevamo sognata, con la sua pineta rigogliosa, i prati lussureggianti e la miriade di laghi. La mia spalla va molto meglio e la tendinite sembra essere ormai un ricordo, questo pensiero mi fa dimenticare il maltempo che verso sera ci dà una falsa tregua.
Arriviamo al Parco del Denali, decidiamo di montare le tende in un camping di poco lontano il Denali e sicuro della mia esperienza di anni di campeggio con la mia famiglia e con l’oratorio allargo il telo sottotenda ben oltre il perimetro della mia tenda per scongiurare l’umidità del terreno. La mattina seguente ricevo un duro insegnamento: quando pecchi di presunzione e credi di saperne più di Lei, l’Alaska ricaccia indietro la tua superbia con una bella lezione! Il telo ha fatto da imbuto convogliando tutta la pioggia della notte sotto la mia tenda. Sono un po’ amareggiato ma per fortuna il pavimento impermeabile ha salvato tutta l’attrezzatura. Scuotiamo a lungo le nostre tende con la speranza di asciugarle e, anche se il risultato non ci soddisfa a pieno, impacchettiamo il tutto: oggi è la volta del Parco del Denali. Il meteo non è affatto migliorato, ma rimandare significherebbe accumulare ulteriori ritardi sulla tabella di marcia e magari perdere future tappe, quindi raggiungiamo il centro visitatori. Lì un video corso ci illustra le tecniche di comportamento all’interno del parco per avere il minore impatto possibile sull’ambiente dove ci troviamo e in particolare come comportarci per non incorrere in situazioni di pericolo con gli orsi. Ci spiegano come creare lo schema del “golden triangle” che consiste nel piantare le tende lasciando almeno a 100 metri di distanza le provviste in speciali barili e cucinare a 100 metri da questi ultimi due punti. Così facendo viene a crearsi un triangolo di postazioni; lasciare cibo o cucinare vicino alle tende è severamente vietato. Qualora un orso, attirato dagli odori, trovasse cibo dentro ad un campo inizierebbe a razziare tutte le tende che incontrerebbe sul suo cammino in quanto assocerebbe l’uomo al cibo! Ritiriamo quattro ingombranti e pesanti barili antiorso e saliamo a bordo del bus. Ci dà il benvenuto all’interno del parco una ranger lasciandoci un quesito: “What does this Wilderness for me?”; “Cosa significa questa Natura per me?”. Ognuno di noi si porta dentro questa domanda mentre percorriamo l’infinita strada che si inerpica dentro il Denali.
Subito avvistiamo in lontananza un orso Grizzly; è lontano almeno quattrocento metri ma siamo tutti elettrizzati; non è comunque facile da avvistare, specialmente con il maltempo. Ben presto però l’eccitazione lascia il posto allo sconforto: il Denali decantato in qualsiasi documentario sull’Alaska come il posto più bello, si presenta a noi come una grigia e triste landa sommersa di nebbia. Siamo piuttosto delusi e a fine giornata il bus ci scarica nella zona a noi destinata, l’ultima in fondo al parco, dove però è presente un villaggio di lodge di lusso che, per quanto piccole siano, crediamo deturpino pesantemente questa selvaggia immensità.Percorriamo un sentiero che ci porta ad una altura dove piantiamo le tende. Lì il maltempo ci concede una tregua e il Denali ci regala un meraviglioso tramonto di mille sfumature, che per un attimo ci svela la maestosità del luogo dove ci troviamo.
Non appena ci rintaniamo per la notte, la pioggia ricomincia a ticchettare cadenzata e inesorabile sulle nostre tende. La ricordo come la peggiore notte che io abbia mai trascorso e la mattina come il momento più triste di tutto il viaggio. La pioggia, l’umidità e il freddo sono entrati nelle ossa e hanno raggiunto anche il nostro umore. La delusione è tanta, davvero tanta. Mi sono ritrovato a camminare tante volte sotto la pioggia, sulle montagne di casa anche per giorni interi ed avevo imparato, grazie ai consigli dei miei amici, come difendermi dall’acqua, dal freddo e dal fango. Ma quattro giorni di pioggia fanno saltare la testa a chiunque e piegano anche i caratteri più duri; è una sensazione che soltanto chi l’ha provata può comprendere a pieno.
Mi sto quasi domandando chi me l’abbia fatto fare, ma mi basta aprire la cerniera della tenda per scoprire la forza di questo viaggio: il mio gruppo.Abbiamo tutti gli stessi pensieri e lo stesso umore, ma una pacca sulla spalla, una frizionata sulla schiena e un sorriso fanno scomparire tutti nostri brutti pensieri! A malincuore, decidiamo di lasciare il Denali. Il tempo continua a peggiorare e sulla strada di ritorno incontriamo pure la neve, piuttosto insolita in quel periodo dell’anno, ma a quanto pare noi siamo fortunati! Finalmente la sera ci riscaldiamo con una doccia calda, la più calda che io abbia mai fatto e il giorno dopo ci mettiamo in viaggio sulla Denali Higway.
Sembra che l’Alaska abbia voluto metterci alla prova per poi rivelarsi a noi in tutto il suo splendore. Il maltempo ci concede finalmente una giornata di tregua dove scattiamo la maggior parte delle nostre fotografie. Dopo il maltempo, finalmente la natura incredibile di questa terra. Fuori dal finestrino si susseguono i panorami più belli che io abbia mai visto, con alci e caribù in lontananza e un’infinità di lepri che ci attraversano la strada. Viaggiamo per tutto il giorno fermandoci in continuazione, talvolta frenando bruscamente l’auto, ma quei panorami sono troppo belli, meravigliosi, infiniti e immortali. Ricordo un punto sopraelevato dove Francesco, alla guida, quasi ci ordinò di scendere dicendo: “Ragazzi, riempitevi gli occhi!”Rimaniamo per molto tempo ad ammirare quell’incredibile panorama dove l’occhio, in qualunque direzione si perde in immagini stupende, guardando prati lussureggianti, foreste di conifere, laghi e ancora prati infiniti, acquitrini e montagne! Tutto da un solo punto di osservazione. Non esistono parole o foto che possano descrivere la bellezza di quel luogo e nei momenti tristi, mi capita spesso di tornare con la mente lì, su quell’altura sopraelevata.
Risaliamo a bordo di Yoghi e in radio passa la canzone “Society” di Eddie Vedder, colonna sonora del film “Into the Wild”, storia che ognuno di noi di questo viaggio conosce bene e che in fondo in fondo ha ispirato il viaggio stesso! Questa incredibile giornata volge al termine, siamo ancora in viaggio, in grande ritardo sulla tabella di marcia, ma la colpa è della bellezza di quella natura. Il sole tramonta su quella strada che ha saputo regalarci così tante emozioni. La radio passa la melodia “River flow inside you”. Il fiume di note di quel pianoforte si mischia con i colori di quella terra e sfocia dentro ai nostri pensieri più profondi, quelli che ognuno di noi custodisce dentro di sé, che ha portato anche durante questo viaggio. I nostri sguardi silenziosi si incontrano, abbiamo tutti gli occhi lucidi e ci sentiamo di ringraziare l’Alaska per i doni di quella giornata.
Approdiamo da Patty, una sorta di campeggio con diversi lodge in legno dove ci rifocilliamo e ci addormentiamo sognando le meraviglie della giornata.
Saliamo sulk Root Glacier. Il giorno dopo ripartiamo alla volta di Kennicot, un villaggio di minatori che sembra uscito proprio da un romanzo di Bernard Clavel o di Jack London, dove parte un trekking che porta al Root Glacier. Un enorme e maestoso ghiacciaio si staglia sotto i nostri pedi, noi lo attraversiamo con i ramponi allacciati agli scarponi. Ci ritroviamo immersi in un paesaggio lunare con mille sfumature di azzurro, il ghiacciaio è attraversato da una miriade di ruscelli che si gettano dentro a crepacci che sembrano infiniti, camminiamo avvolti da pareti di ghiaccio alte anche parecchi metri che ricordano le onde di un mare in tempesta.La pioggia che ci aveva risparmiato fino ad allora torna a flagellarci e una volta oltrepassata la morena laterale raggiungiamo le pendici del Donoho Bain, un massiccio roccioso che divide il ghiacciaio a metà, dove ormai fradici e ricoperti di fango argilloso piantiamo le nostre tende.
Un’occhiata di sole fa risplendere il sole sul Root Glacier e Davide decide di sorvolarlo con il suo drone, ma subito un falchetto si precipita in picchiata sul “volatile” con gli artigli sguainati; il drone atterra appena in tempo prima che il rapace compia una cabrata rinunciando alla preda.Cuciniamo le nostre cene liofilizzate e sorseggiamo un tè, ammirando l’immensità dove ci troviamo, prima di addormentarci stanchi morti.La mattina vengo risvegliato dal mio sonno profondo dalle urla di Marco: “Un Orso!” Ci metto un po’ a convincermi di abbandonare il calore del mio sacco a pelo, per andare a vedere dove sia quest’orso, che immagino su qualche altura del ghiacciaio o dentro la boscaglia. Ma poi sento “Ragazzi c’è un Orso, fuori dalle tende! ….Vai via!…. Fate rumore altrimenti entra!” Mi precipito fuori dalla tenda con gli scarponi slacciati e le mani che stringono tremanti la bomboletta di spray antiorso.
Ed eccolo lì, a pochi metri da noi un grande orso nero, più piccolo di un Grizzly, ma comunque veramente imponente, che bruca indisturbato le bacche dei cespugli distanti pochi passi dal nostro campo! Noi iniziamo a scuotere le nostre tende, ad agitare le braccia e ad urlare contro di lui come ci era stato insegnato nel videocorso. Questo si ferma per un attimo a guardarci, con un’aria per metà stupita e per metà perplessa, come a chiederci “Ma che volete?” e si allontana indisturbato e per niente spaventato, continuando a brucare bacche con la sua possente e dondolante andatura. Scampato il pericolo, ancora tremanti di adrenalina ci sentiamo più vivi che mai e ci rendiamo conto di aver vissuto un’esperienza fuori dal comune. Smontiamo il campo e riattraversiamo il ghiacciaio salutando quel meraviglioso posto che ci ha regalato così tante emozioni. A bordo di Yoghi e Bubu, dopo aver passato qualche tenebroso e raccapricciante campeggio abbandonato che sembra il set di un film horror, scorgiamo una piccola radura a lato della strada. Scopriamo essere una piazzola di sosta dove decidiamo di accamparci per la notte e dove riusciamo finalmente ad accendere un fuoco, cenando con i visi illuminati dalle braci. Riunirsi attorno al fuoco ha un non so che di ancestrale, siamo nel bel mezzo del nulla e ci sentiamo uniti, felici e grati per il nostro essere insieme.
Alla volta di Valdez. Il giorno dopo viaggiamo verso Valdez. Sostiamo a lungo in una incantevole, sperduta e silenziosa cittadina di montagna che sembra uscita da un episodio della Signora in giallo, con un grande lago circondato da un’infinita pineta, sorvolata da aquile dalla testa bianca intente nella pesca. Sferzati da un vento gelido e stretti attorno al fornellino su cui bolle il nostro cappuccino liofilizzato, siamo felici e incantati da quel posto così bello. Alle nostre spalle, un enorme alce bruca dentro un giardino di proprietà, ma scappa al galoppo nella pineta non appena si accorge della nostra presenza. Proseguiamo poi fino a Valdez, dove prolunghiamo la nostra permanenza per due giorni, girovagando nella cittadina e ripiegando su brevi trekking, alla scoperta delle strette vallate ricoperte di conifere. La pioggia abbondante ci offre lo spettacolo delle cascate che rigano i verdi e ripidi pendii rocciosi. La sera ci ritroviamo a giocare a biliardo e freccette in un tipico locale di lupi di mare e pescatori di Halibut.
La mattina seguente ci imbarchiamo con il traghetto dove navighiamo per tutto il giorno alla volta di Whittier. Durante la navigazione ci dicono sia possibile avvistare orche e balene, e così trascorriamo la maggior parte della traversata sferzati da una gelida bufera, scrutando i nebbiosi fiordi, sperando di scorgere il loro respiro. Ma niente, dei cetacei nemmeno l’ombra. E proprio in quel momento, sul ponte di un traghetto flagellato dalla pioggia, nel bel mezzo di un mare avvolto di nebbia, tra una lacrima e un abbraccio è nata una bellissima amicizia, più profonda di tutte le altre vissute durante questo viaggio, che dura tutt’ora. Visitiamo la cittadina di Whittier, questa volta da turisti per poi spostarci verso Seward. La sera decidiamo di prenderci una pausa dagli hamburger, dal manzo affumicato e dalle barrette energetiche, comprando tutto l’occorrente per cucinare una pasta alla Norma e una carbonara e ne facciamo una colossale scorpacciata.
La mattina seguente, navigando a bordo di un piccolo traghetto, raggiungiamo il Kenay Fiord national Park. Il mare è pieno di lontre, creature cicciotte e pelose che amano trascorrere il loro tempo galleggiando sul dorso; al passaggio della nostra imbarcazione agitano per un attimo le zampe anteriori e sembrano salutarci tra i nostri sorrisi divertiti. Giunti alla riserva, volendo esplorare i fiordi da un’altra prospettiva, abbiamo prenotato un’escursione in kayak, e dopo una breve lezione su come si governa la canoa biposto prendiamo il mare. Tante quante i piccioni di Piazza del Duomo, dovunque ci giriamo ci sono Puffins: pulcinelle di mare che planano sull’acqua da ogni direzione. Siamo divertiti dal loro volo e dal loro aspetto goffo e di tanto in tanto, tra un’onda e l’altra, fa capolino la testa baffuta di un leone marino. Giungiamo a sera distrutti dal continuo remare, ma ancora una volta felici e grati della bella giornata che ci è stata concessa.
Dopo un po’ di mare, si torna a salire. Il giorno seguente arriviamo ai piedi dell’Exit Glacier dove passiamo la notte in una sorta di campeggio autogestito, vicino ad un maestoso fiume dalle grigie acque argillose, uno di quelli che a fine ottocento avrebbe pullulato di disperati cercatori d’oro. La mattina ci svegliamo trovando accanto alla tenda una gigantesca torta di escrementi, scaricata da qualche alce nella notte, senza averne avvertito la benché minima presenza. Il sole splende in quella lussureggiante valle scavata dal ghiacciaio e noi ci incamminiamo sul ripido sentiero che porta al maestoso Exit Glacier. Il cambiamento climatico è tangibile: i cartelli ci segnalano che fino a pochi anni prima il ghiacciaio arrivava fino a lì, siamo profondamente tristi chiedendoci se davvero le generazioni future potranno ancora godere di tanta bellezza. Per fortuna una vanitosa marmotta che non smette di mettersi in posa ci strappa un sorriso.
Con l’aumentare dell’altitudine la verde vallata cede il posto ad un panorama roccioso, con una vegetazione pressoché nulla; camminiamo per vallate moreniche intervallate da nevai dove il colore bruno delle rocce mi ricorda tanto le mie amate Orobie. Qui però, al posto degli stambecchi, troviamo i Big Horns: le tipiche capre selvatiche di montagna, molto schive ma facilmente riconoscibili per il colore bianco del loro vello tra un banco di nebbia e l’altro. L’improvviso mutare del meteo ci fa desistere dal raggiungere il ghiacciaio, ma con la macchina fotografica dei ricordi scatto una cartolina di quel meraviglioso balcone roccioso dominato da un oceano di ghiaccio. Dai ghiacciai alla riva del fiume… con sorpresa.
Il giorno seguente ci imbarchiamo nuovamente verso Kachemak Bay State park, l’ultima riserva, raggiungibile soltanto con i landing crafts. Approdiamo in una baia rocciosa in perfetto stile D-Day, la chiglia della nostra barca di alluminio si arena dolcemente sulla riva, abbassa una sorta di ponte levatoio a prua e, come soldati in Normandia, sbarchiamo rapidamente con le nostre attrezzature. Prendiamo un sentiero e ci addentriamo in questa meravigliosa riserva fino ad arrivare alla spiaggia rocciosa di un tranquillo lago glaciale dove enormi iceberg si staccano dal ghiacciaio e galleggiando approdano fino a riva. Lì montiamo il nostro campo e ci dividiamo in due gruppi: alcuni hanno intenzione di rimanere nei dintorni, mentre io ed altri puntiamo a raggiungere il ghiacciaio partendo per un lungo trekking dentro la riserva.
Tramite una teleferica passiamo un fiume in piena e il panorama cambia nuovamente; la vegetazione fitta e lussureggiante prende il posto della spiaggia di roccia. Ovunque troviamo giacigli ed escrementi di orso e i personaggi che incontriamo, tutti muniti con revolver appuntati sul petto ci parlano di avvistamenti. Noi crediamo di avere già avuto la nostra esperienza, ma teniamo comunque sempre a portata i nostri spray antiorso e camminiamo cercando di fare rumore, come ci è stato insegnato; gli orsi tendono a predare soltanto ciò che si muove in silenzio nella boscaglia.
Ricordo di essermi ritrovato a cantare a squarciagola le più belle canzoni di Zucchero, le colonne sonore del film Spirit che sembrano riportare a quegli stessi luoghi selvaggi e incontaminati; uno dei momenti più intensi di spensierata felicità di tutto il viaggio. Dopo aver passato una distesa rocciosa ricoperta di aghi morti dove di tanto in tanto si erge qualche scarna pianta aghiforme, ci imbattiamo in un piccolo laghetto. Siamo davvero tentati dal fare un bagno in perfetto stile selvaggio, ma gli escrementi di lupo che abbiamo ritrovato sugli incroci dei sentieri e le acque non proprio cristalline ci fanno desistere. Incontriamo un altro fiume stracolmo di salmoni dove ci sono più pesci che acqua, questi ultimi hanno completato il loro ciclo vitale e nuotano agonizzanti e deformi contro corrente, lasciandosi morire dopo aver deposto le uova. In quell’escursione incontriamo parecchia fauna oltre le aquile che volano sopra le nostre teste, un ghiottone infatti abbandona spaventato il nostro sentiero sgattaiolando nel fitto della boscaglia e sulla strada del ritorno, un gigantesco orso nero ci taglia la strada a tutta velocità. Rimaniamo per un attimo paralizzati ma la scarica di adrenalina ci accompagna fino a quando rientriamo al campo. La giornata è stata davvero intensa e tutti sono già riuniti attorno al fuoco per cenare, volutamente distanti dalle tende. Nel raggiungerli decido per una breve deviazione verso la mia tenda e quello che trovo è uno scenario davvero raccapricciante. I nostri oggetti sono sparsi ovunque, una tenda è divelta a terra, un’altra non c’è più e un’altra ancora presenta tre squarci diagonali; non c’è dubbio riguardo a quanto è successo! Afferro la ricetrasmittente e allerto il gruppo: un orso ha distrutto il nostro campo!
Ci mettono un po’ a raggiungermi credendo si tratti di un mio scherzo, ma poi iniziamo la conta dei danni. La tenda sparita la ritroviamo nel mezzo della boscaglia completamente distrutta e più distante ancora uno zaino con lo schienale sfondato da una zampata e la borraccia ancora appesa bucata con quattro fori come di proiettile, del diametro del mio mignolo. Fortunatamente non manca niente e stiamo tutti bene ma sono momenti di vera paura con un misto di smarrimento; non siamo soli, molti altri escursionisti hanno montato le loro tende sulla riva del lago ma non ci sentiamo comunque al sicuro. Resta un mistero cosa abbia spinto l’orso a distruggere le nostre tende dato che non c’era cibo al loro interno, ma molto probabilmente qualcuno prima di noi lo aveva lasciato e l’orso aveva fatto memoria di quell’esperienza. Per sentirci più al sicuro raggruppiamo ulteriormente il campo spostandolo più vicino alla riva e ci suddividiamo nuovamente per poter passare tutti la notte al riparo nelle tende rimaste. In un documentario sull’Artide avevo visto che come gli esploratori si difendono dagli attacchi degli orsi polari tramite dei recinti sonori e quindi ne improvviso uno attorno al campo, tendendo un cordino a cui ho fissato un campanello. Durante la notte il campanello non suona, ma pochi di noi possono dire di aver riposato davvero; la mattina dopo spostiamo immediatamente il campo sulla spiaggia in riva al mare, che crediamo più al sicuro.
Partiamo per un’altra ultima escursione nelle bellezze del parco di Kakemak. La sera ceniamo in riva al mare attorno al fuoco e ci addormentiamo cullati dal dolce suono della risacca. La notte però la passo in bianco, suggestionato forse dall’esperienza del giorno prima, continuo a sentire un suono animale simile ad un lamento e perciò, nel cuore della notte, decido di svegliare tutti per capire di cosa si tratta. I graffi di artigli sui contenitori antiorso, vecchi forse di mesi, ci ricordano chi sono i padroni di casa; ma dopo aver pattugliato i dintorni del campo di un orso non c’è traccia e ritorniamo quindi a dormire. La mattina, due lontre ci salutano dal bagnasciuga e sospettiamo che forse, il lamento che avevo sentito era proprio il russare di una di loro. Arriva la nostra barca e noi salutiamo, con nel cuore un misto di odio e amore, quella parte di Alaska che ha saputo regalarci un concentrato di avventure. Il maltempo torna ad abbattersi sul nostro viaggio e proprio dobbiamo rinunciare all’ultimo trek, seguiamo quindi il consiglio del nostro barcaiolo e ci imbattiamo in una fiera del bestiame in perfetto stile americano, con la gara degli ortaggi, le corse di porcellini, le esibizioni di rodeo, le esposizioni bovine e tanto ma tanto street food.
Facciamo ritorno ad Ancorage verso sera. Ed eccoci arrivati all’ultimo giorno della nostra avventura e ognuno di noi, dentro di sé, inizia a sentire la tristezza del ritorno, ma quando le emozioni sembravano finite passeggiando a zonzo per la città mi imbatto nella statua di un cane da slitta. La riconosco e subito gli occhi mi si illuminano di felicità. Sotto la statua sta scritto, “L’Iditarod parte quì”. Si tratta della gara da slitte più famosa al mondo che ripercorre la staffetta della Penicillina trasportata dall’altrettanto famoso cane Balto durante l’inverno del 1925. È per me un sogno nel sogno, come un bambino con il suo supereroe scatto una foto con un enorme sorriso indossando il cappello da cercatore d’oro che mi sono regalato proprio qui.
È tempo di ritornare in aeroporto, i nostri volti si fanno tristi mentre cerchiamo di piazzare gli spray antiorso ai turisti in arrivo, puntando quelli con gli zaini più grandi. Davanti all’ultimo hamburger in terra americana sento di chiedere scusa ai miei compagni di viaggio per i pregiudizi che avevo avuto nei loro confronti 19 giorni prima, e li ringrazio per essersi comportati come veri amici; conservo tutt’ora uno speciale ricordo per ognuno di loro.
Salendo la scaletta dell’aereo, inspiro forte per l’ultima volta l’aria d’Alaska, e dico addio a quel paese lontano che ha riempito il mio bagaglio di ricordi e di tante avventure, momenti belli e brutti che sento di aver vissuto comunque e sempre intensamente. Nemmeno 15 giorni dopo essere rientrati in Italia organizziamo una reunione, sulle spiagge di Fregene, questa volta al caldo e con tanto tanto sole, ma con la stessa scanzonata voglia di essere felici insieme.
L’Alaska era un sogno, il Mio sogno, il desiderio che per quasi 15 anni avevo gelosamente custodito dentro di me. Una terra infinita selvaggia e contraddittoria come l’amore e l’odio che ho provato per lei, un viaggio da cui sono tornato profondamente cambiato, e questo è quello che succede quando si realizzano i propri sogni. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo viaggio. Il nemico dell’uomo qui è sicuramente il freddo; quando in inverno le temperature scendono fino a -40° sotto zero è impossibile non desiderare di avere tra le mani una tazza di cioccolata calda. Meglio quindi affrontare la propria avventura in primavera o in estate, quando neve e ghiaccio iniziano a sciogliersi.Per chi ama la natura però l’Alaska ha davvero molto da offrire, soprattutto per quanto riguarda i parchi nazionali; sul territorio se ne contano ben quattro.
I miei compagni e amici di viaggio: Marta, Alicia, Daniele, Giovanna, Manuela, Franco, Sara, Romina, Patrizio e Franca con i quali ho condiviso questa breve ma intensa parte della mia vita, in particolare la mia impeccabile coordinatrice Milena, piccola grande donna che ha saputo guidare tutti noi in quella terra così lontana. Ringrazio i miei amici che invece sono rimasti a casa, i miei amori Clara e Valentino per le innumerevoli avventure in cui mi hanno insegnato a proteggermi, a temere e ad amare la montagna. Ringrazio mia cugina per avermi regalato quel libro che mi ha fatto innamorare dell’Ultima Frontiera e infine ringrazio i miei genitori per avermi regalato l’attrezzatura più importante, senza la quale non avrei mai potuto affrontare questo viaggio: l’amore per la natura, lo spirito d’adattamento e il piacere della scoperta. Dedico questo mio racconto a tutti coloro che dentro di sé custodiscono un desiderio. Una vita trascorsa ad inseguire un sogno, anche se irrealizzabile, è una vita che merita di essere vissuta.
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