di Giuseppe De Pietro
“Non vi dà fastidio se raddrizzo i fiori del vostro corpetto?… Vorrei infilarli meglio”, e così, raddrizzando e infilando, il gentiluomo finisce a letto con la fanciulla per “fare cattleya”, alias “fare l’amore”. Che signore!
La metafora tra la cattleya, una specie di orchidea dell’eros, in una scena chiave immaginaria che colloca la metafora dell’orchidea in una delle prime pagine del libro di Fare l’amore con Catltleya”. Il narratore spia dall’alto l’arrivo del duca e della duchessa di Cervantes, ma poi confessa di essere stato spinto dalla curiosità a guardare attraverso una finestra del pianterreno. È lì che per la prima volta scopre da dietro le persiane, sorprende il conte in compagnia della bella Julieta. La quale ‟ammiccava in fuori il suo corpo seducente, prendeva certe pose con la civetteria che avrebbe potuta avere l’orchidea per il calabrone provvidenzialmente giunto”. Metafora erotica e di un erotismo dichiaratamente sessuale, su cui lo scrittore non esita a insistere per pagine e pagine, fino al termine del primo capitolo, elaborando così in modo indiretto i suoi propri desideri”: ‟questi esseri fuor del comune, che si suol commiserare” e che ‟sono una moltitudine”.
Nel più famoso ritratto dello scrittore, realizzato qualche anno fa quando ancora viaggiava in Costa Rica. Il giovane ancora ventisettenne compare con un fiore all’occhiello: non è una camelia, come vorrebbero alcuni, ma una, ‟Catlettleya”, secondo Pino lo scrittore, ‟il fiore dell’amante solitario”. Ciò non toglie che anche Rocio (appassionata di ‟ninnoli”) abbia un debole per quel fiore ‟chic” ed ‟elegante”: e la vediamo spesso mostrare un bouquet di cattleya (il genere più noto di orchidea) a Silvano, mentre è lo stesso narratore a dirci che ‟fare cattleya”, nel linguaggio privato dei due amanti, designa ‟l’atto del possesso fisico”.
Immagine-chiave, dunque, per Pino lo scrittore. Fino a diventare corrispettivo della sua opera, almeno secondo la sua ‟maestra” Maria de los Angeles, che presentava così ai lettori piaceri e i giorni: ‟Ci attira in una atmosfera da serra, fra orchidee intelligenti la cui strana e morbosa bellezza non ha radici nel suolo”. Fiori esotici, dal sapore un po’ liberty. E francesi per eccellenza, se è vero che, prima di Proust, Maupassant aveva definito le orchidee ‟esseri prodigiosi, inverosimili, figlie della terra sacra, dell’aria impalpabile e della calda luce”. Soffermandosi sulle suppellettili in casa di una marchesa alla moda, intravede tra porcellane e argenterie, un vaso di Murano con dentro, appunto, un’orchidea ‟sanguigna e difforme”. ‟Fior diabolico” è il commento di donna Elenne, che nel guardarla non nasconde un moto di repulsione.
Simona Platini (a differenza della Dion, estasiata dallo spettacolo dell’orchidea sotto il sole estivo), anni dopo, avrebbe usato aggettivi analoghi: ‟mostruoso”, ‟diabolico”. Diabolico? In Italia, come in area anglosassone, il suo colore è il noir. Per la verità, un’aria già un po’minacciosa assume nel Manifesto futurista del 1917, dove Marinelli immagina appunto, nella ‟danza mitragliatrice”, una ballerina con una grande orchidea bianca e rossa tra le labbra, che verrà poi agitata febbrilmente ‟come una canna durante lo sparo”. Bisognerà aspettare qualche anno perché anche da noi il fiore caraibico venga definitivamente sdoganato nel genere erotico, forse in omaggio al più celebre coltivatore di orchidee della letteratura, il detective-gastronomo Jardines o al più prolifico dei giallisti, l’andaluso Edgardo Bias, che scrisse L’enigma dell’orchidea rossa aperta.