Le isole di Darwin, un’altro mondo

di Adriana Di Pietro

Il volo di linea Buenos Aires-Quito con trasbordo ad un aereo locale per Guayaquil-Baltra ci porta alle Galapagos con me, Guillelmo ed i nostri due figli  Julia e Dante.Baltra è un’isoletta disabitata, sarebbe più esatto dire un mucchio di sassi inutilizzabili, che l’Ecuador ha prestato agli Stati Uniti durante l’ultima guerramondiale, ed in tale occasione vi è stato costruito un aeroporto.
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Un ragazzo sorridente ci accoglie e ci aiuta a sbrigare le formalità che consistonosopratutto nel pagare la tassa di accesso alle isole, ammontante a circa 100 dollari, è la guida turistica dello yate Antartida, un cabinato di 18 metri che ci aspetta all’ancora a Puerto Ayora. Bagagli alla mano, con tutti gli altri ospiti dello yate, saliamo su un mezzo pubblico che dopo circa un chilometro, ci lascia sulla sponda del mare, l’isola di Santa Cruz è di fronte, a meno di cento metri. Un traghetto ci porta in pochi minuti sull’altra sponda ed un’altro autobus ci scarrozza su una strada polverosa in terra battura che pare tracciata da un colpo di fucile, dopo un’ora di scossoni, l’asfalto ci informa della vicinanza di un centro abitato, è Puerto Ayora, circa tremila abitanti, il centro nevralgico dell’arcipelago.
Mentre attendiamo la barca che ci deve portare allo yate incontriamo, sul molo,alcune iguane marine che si scaldano pigramente al sole. Ignari dell’indigestione di animali che ci aspetta, scattiamo le prime foto.
L’equipaggio dell’Antartida è composto da un capitano vispo e riccioluto, che subito viene a fare la nostra conoscenza, da un macchinista, un cuoco, un cameriere tuttofare e ovviamente dalla guida che abbiamo incontrato all’aeroporto.
Gli ospiti sono due giovani coppie una inglese ed una svedese, sulla cinquanta, una
dottoressa trentenne di Boston ed un impiegato trentacinquenne canadese, oltre a me, mio marito ed i nostri figli.
Un momento imbarazzante è la sistemazione nelle cabine, la guida, non sapendo quali siano le coppie, tira ad indovinare ed io finisco con la dottoressa americana,l’equivoco è però subito chiarito ed andiamo a fare conoscenza con l’alloggio, una cabina larga poco più di un metro e lunga due con un’altro metro quadrato destinato alla doccia ed all’impianto igienico. Per una settimana questo sarà il nostro piccolo mondo, fuori solo l’oceano e qualche isola poco attraente.

La notte è tremenda, siamo in mezzo al pacifico, aggrappati alla nostra branda per non cadere, strapazzati dagli scossoni del mare grosso. Per fortuna, verso le tre, il movimento rallenta e sentiamo calare l’ancora, riusciamo a dormire alcune ore prima di svegliarci e fare la prima colazione nei pressi di una piccola isola rocciosa.
Il sole picchia a latitudine zero ma, come ci spiega il capitano, nella stagione secca le correnti marine sono molto fredde e l’acqua non supera i venti gradi, di conseguenza l’aria non è calda, nella stagione umida, corrispondente al nostro inverno/primavera, correnti diverse permettono al mare di raggiungere anche i ventotto gradi.
La barca di servizio ci porta a terra, la guida spiega che si tratta di un “dry landing”,in pratica un tremendo saltone dalla barca ad uno scoglio per evitare di bagnarci.

Ogni peripezia viene dimenticata non appena riusciamo a prendere contatto con la vita dell’isola, abbiamo finalmente raggiunto la ragione di tutte le nostre fatiche.
A pochi metri dall’approdo troviamo una foca distesa tra i sassi, a prima vista sembra morta, si tratta di una giovane femmina di “lobo de mar” che dorme, ci dice la guida, subito dopo un’altra si muove arrancando tra le rocce, in seguito ne incontriamo a decine.
La nostra attenzione viene attratta dai bassi cespugli dell’interno dove nidificano le fregate, nidi ovunque, i piccoli coprono tutti gli stadi di sviluppo dall’uovo in avanti, i maschi adulti gonfiano l’enorme gola rossa per attirare le femmine e quest’ultime li sorvolano in cerca del più attraente per accoppiarsi, ma ecco che nascosta negli anfratti della riva scorgiamo la prima iguana marina, altre la seguono, la quantità degli stimoli è tale che non riusciamo a seguire e vedere tutto. Fotografiamo e filmiamo quanto più è possibile, per un paio d’ore, poi torniamo, con il solito salto, alla barca appoggio e quindi allo yate.

Nel pomeriggio altra traversata, la maggior parte degli ospiti si lascia cogliere impreparata ed è costretta ad interrompere, bruscamente e senza volerlo, la digestione di quanto aveva ingerito durante il pranzo.
Verso sera gettiamo l’ancora in una rada e passiamo una notte tranquilla.
Altra mattinata luminosa ma non calda, si sbarca su una colata di lava, la superficie fa pensare ad un fluido solidificato da poco sul quale le pieghe disegnano un paesaggio irreale, per aspetto, durezza e pesantezza, le rocce ricordano una colata di ghisa, l’eruzione è avvenuta oltre cento anni fà ma questo terreno arido ed inospitale è colonizzato solo da rarissimi cactus, qualche lucertola e pochi insetti.

A Bartolomé saliamo su una vetta di un vulcano spento alto più di cento metri, il panorama è suggestivo, una lingua di bianca sabbia corallina unisce la collina ad altre due più piccole a destra delle quali una lama di roccia è puntata verso il cielo, al di là si vede l’isola di Santiago che abbiamo appena visitato, è molto vasta e la parte occupata dalla colata di lava è di grandi dimensioni, dalle rocce nere dell’eruzione spuntano collinette più antiche di diverso colore.
La guida ci spiega che la spiaggia a sinistra della lingua di sabbia è frequentata da pescecani, mentre quella a destra è sicura, e potremo quindi farvi il bagno. Mi approprio di un paio di pinne, una maschera ed un boccaglio, ed entro lentamente in acqua, data la temperatura preferisco non togliere la maglietta che mi aiuterà a sopportare il freddo, subito vengo raggiunto da un paio di leoni marini in vena di scherzi, la loro presenza non è rassicurante, quindi me ne vado puntando diritto verso lo yate che ci aspetta al largo, nel tragitto scorgo sul fondo, tra gli sconfinati banchi di pesci, dei ricci di circa un metro di diametro ed in lontananza, un piccolo squalo martello. Non appena mi avvicino allo scafo, il motorista carogna, indicando l’acqua, comincia a gridare: “La tintorera, la tintorera!”. La faccia sorridente rende lo scherzo troppo evidente, ma è pur sempre inquietante per un marinaio di acqua dolce come me, mi affretto quindi a salire in barca per fugare ogni dubbio.
Prima di questo viaggio avevo visto le foche solo allo zoo, dove avevo legato il loroodore pungente alla cattività, all’approdo del giorno successivo mi devo ricredere, ad alcune centinaia di metri da terra, l’aria irrespirabile ci informa che l’isola è frequentata da una colonia di leoni marini, la costa è divisa in territori dai grandi maschi, pesanti varie centinaia di chili che difendono il loro spazio contro chiunque, incluso qualche sprovveduto turista, mentre le femmine giovani e vecchie si scaldano al sole ed i piccoli ne approfittano per attaccarsi e mangiare. Tutta la zona risuona di richiami o semplicemente di grida di gioia. Gli animali sono centinaia e le rocce sono consumate ed arrotondate per il loro continuo passaggio.
I documentari che siamo abituati a vedere alla televisione, non sono in grado di rendere appieno le sensazioni che si provano di fronte a questo spettacolo tremendo ed affascinante.
Parecchi animali portano i segni dei pescecani, una ferita fresca sulla schiena, di notevoli dimensioni, deturpa una povera bestiola. Una mamma, che allatta un piccolo di pochi giorni, scaccia con un gesto umano, usando la pinna anteriore, le mosche che le torturano un occhio, del quale è rimasta solo l’orbita vuota e sanguinante. Ne la madre ne il piccolo potranno cavarsela.
Addentratici tra i massi incontriamo le iguane terrestri, che data la scarsa vegetazione delle isole, si sono adattate a mangiare i cactus, ne apprezzano particolarmente i frutti, pur non disdegnando le foglie, questi strani animali dalle dimensioni non superiori al metro, per una quindicina di chili, sono un residuato dell’era dei dinosauri.
Le isole si susseguono senza sosta, una è un’enorme posatoio per uccelli, la roccia,che in origine era nera, ora è diventata completamente bianca, corrosa e ricoperta dagli escrementi, la visita è resa difficile dalla attenzione che si è costretti a tenere per evitare di calpestare un piccolo, un nido o un uovo lasciato incustodito.
La signora tedesca del nostro gruppo, appassionata documentarista, mentre è intenta a filmare, passa distrattamente troppo vicina ad un nido. La madre, dedita alla cova, non gradisce l’intrusione e le procura, con una beccata, una profonda ferita alla gamba lunga alcuni centimetri, che siamo costretti a medicarle con la dotazione della infermeria di bordo.
Anche l’albatros fà parte della fauna di quest’isola, un uccello dall’apertura alare di due metri, grande come un tacchino, dal buffo incedere e dall’ancora più buffo rituale di corteggiamento, rituale al quale assisto impotente con la batteria della telecamera ormai scarica. Pur essendo un grande volatore, questo uccello necessita di una lunghissima pista di atterraggio, poiché in tale operazione ha serie difficoltà e spesso finisce per picchiare tremende facciate per terra, inoltre, per ripartire, necessita di una scogliera dalla quale buttarsi, la sua presenza è quindi legata ad una pista e ad una scogliera non distanti tra loro.
Le particolarità di questo uccello hanno ispirato spesso i cartoni animati di Walt Disney. Un’altra isola ospita la solita colonia di leoni marini ed è pure zeppa di iguane marine dal colore rosso, poiché la temperatura è bassa, questi rettili si riposano nelle zone più riparate dal vento, dove si raggruppano a centinaia.
Quando torniamo allo yate lo troviamo circondato da leoni marini, resi ormai coraggiosi dall’esperienza, facciamo il bagno in mezzo ai simpatici ed innocui pinnuti.

Galapagos: Un lobo de marA Floreana, una delle due isole più a sud, chi passa mette la posta in partenza in un barile e controlla gli indirizzi della posta lasciata delle navi che l’hanno preceduto. Se l’indirizzo è italiano, un italiano ritira la lettera ed appena tornato a casa, dovrà affrancarla ed imbucarla, se l’indirizzo è francese, toccherà ad un francese, e così via.
Si tratta di una simpatica usanza per turisti, residuo del sistema usato dalle baleniere, prima della scoperta della radio, durante le lunghe battute di pesca nella zona. La nave in arrivo depositava la posta, mentre quella in partenza, a fine lavoro,la ritirava e la spediva non appena giunta a terra.
In questo mare ricco di pesce le navi da pesca si alternano senza sosta, è quindi evidente il vantaggio del sistema.
L’abbondanza di pesce è il motivo delle presenza di tanti animali che se ne nutrono,anche il nostro yate è parzialmente autosufficiente, infatti tutte le mattine, di buon ora, il capitano ed il motorista si dedicano alla pesca ed il piatto del giorno si adegua ai risultati di questa attività, in un paio di fortunate occasioni anche l’aragosta entra a far parte del menù.

Una mattina il capitano mi invita ad andare col lui. La barca appoggio, che si usaanche per pescare, è lunga cinque metri ed ha un motore fuori bordo di quaranta cavalli, a mezzo gas caliamo in acqua i due pesci finti che servono da esca, a soli trenta metri dallo yate il capitano cattura un barracuda e subito dopo un “bacalao” ne segue un altro, preso da me, di circa cinque chili. Dopo un quarto d’ora cambiamo tipo di pesca ed utilizzando come esca un pesce trovato in bocca al “bacalao” più grosso, caliamo in acqua gli ami. E’ come prendere i pesci dal frigorifero, dopo dieci minuti frenetici, durante i quali alcuni pinguini, incuriositi dal trambusto, ci osservano dalla vicina scogliera, il capitano decide che il cibo è ormai sufficiente per tutta la giornata, quindi si ritorna. In totale trenta minuti di pesca per quindici chili di pesce.
Uno degli animali più famosi delle Galapagos è la tartaruga gigante, ogni isola ha lasua razza, l’isolamento e le condizioni ambientali ne modificano infatti radicalmente la morfologia.
Le ottime qualità culinarie e la lunga resistenza in vita a bordo delle navi hanno portato questi cheloni sull’orlo dell’estinzione, alcune isole sono ormai spopolate, un cenno particolare merita “solitario George” l’ultimo della sua razza, trovato sull’isola da cui proviene sessantacinque anni dopo l’ultimo avvistamento noto di un’altroesemplare simile. Attualmente è custodito nella “Estacion cientifica Carlos Darwin” e gli sono state messe vicine due femmine della razza più simile alla sua, alle quali però il povero George non presta affatto attenzione.
E’ noto che nel secolo scorso, proprio in questo ambiente, dove sono presenti tanti animali modificatisi per l’isolamento, Darwin trova spunti essenziali per la sua teoria, ormai universalmente accettata, della evoluzione.
Dopo una traversata finale accompagnata dai festosi balzi dei delfini, i saluti all’equipaggio ed ai nostri compagni di viaggio sono l’ultimo ricordo di una lunghissima settimana di vacanza passata nelle Galapagos, un’altro mondo.
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