di Giuseppe De Pietro
“Scioperiamo perché noi abbiamo fatto i nostri compiti a casa e i politici no”. Greta Thunberg, svedese, trecce bionde e la presunzione di chi, non accontentandosi di essere la prima della classe, vorrebbe avere il primato morale sull’intero pianeta: a 16 anni è la più giovane ambientalista europea e promotrice delle marce degli studenti per il clima. “Non mi fermerò. Non fino a quando le emissioni di gas serra non saranno scese sotto il livello di allarme”, è uno dei suoi boriosi mantra, utilizzati per scuotere le coscienze dei grandi del mondo. Una sola domanda sorge spontanea osservando quello sguardo che tutto vorrebbe giudicare: ma chi ti credi di essere? Per mesi, ogni venerdì mattina, invece di andare a scuola, si è piazzata davanti al Parlamento svedese reggendo il cartello “Sciopero scolastico per il clima”. E il web, come fa sempre in questi casi, si è commosso. Greta Eleonora Thunberg Ernman l’attivista svedese per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico. È nota per le sue manifestazioni regolari tenute davanti al Riksdag a Stoccolma, in Svezia con lo slogan Skolstrejk för klimatet.
Lo fa ormai da qualche tempo, per protestare contro il cambiamento climatico ogni venerdì mattina, Greta si reca di fronte al Riksdag, il parlamento svedese, e rimane lì, con un cartello in mano: Skolstrejk för klimatet, sciopero scolastico per il clima. All’inizio era da sola, supportata solamente da genitori della borghesia culturale svedese – la madre è una cantante lirica, il papà un attore – che assecondavano Greta e il suo colpo di testa adolescenziale.
Poi la cosa si è fatta seria. Dopo le elezioni, Greta ha continuato la sua protesta sui social network, coniando lo slogan #fridayforfuture e lanciando la sua protesta su scala globale. Il risultato? Il primo ministro australiano Scott Morrison è dovuto intervenire ufficialmente perché la protesta era diventata virale, chiedendo agli studenti più impegno scolastico e meno attivismo. Lo stesso è successo, seppur in misura minore, in Germania, Olanda, Finlandia, più in generale nei Paesi in cui è maggiore la sensibilità delle persone sui cambiamenti climatici.
Greta ha appena partecipato alla Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima che si è tenuta a Katovice, in Polonia, nei giorni in cui i gilet gialli mettevano a ferro e fuoco Parigi per l’aumento dell’accisa sulla benzina, in cui in Italia il governo litigava per uno sgravio fiscale a favore di chi acquistava automobili elettriche, in cui Trump ribadiva che l’America avrebbe usato ogni fonte energetica disponibile per sostenere la sua crescita economica, in cui i governi di mezzo mondo, sviluppati e non, ribadivano che lotta ai cambiamenti climatici sarebbe dovuta partire altrove, non certo dal loro Paese.
Greta dice due cose: che dovremmo essere più responsabili del casino che abbiamo creato. E che dovremmo arrabbiarci di più. E quando lo dice, con la sua voce da quindicenne, viene voglia di credere che sia lei la vera nemesi alla rabbia conservatrice, impaurita e senza futuro dei gilet gialli
Di fronte a tutto questo Greta dice due cose: che dovremmo essere più responsabili del casino che abbiamo creato. E che dovremmo arrabbiarci di più. E quando lo dice, con la sua voce da quindicenne, viene voglia di credere che sia lei la vera nemesi alla rabbia conservatrice, impaurita e senza futuro dei gilet gialli. Non la risposta compassata delle élite, che guardano dall’alto verso il basso ogni forma di dissenso, salvo poi usarlo come pretesto per non cambiare nulla. E nemmeno la repressione violenta e securitaria di chi si occupa solo degli effetti delle proteste, e mai delle cause.
No, quella di Greta è una rabbia uguale e contraria. Quella di chi vede minacciato il proprio futuro, dalla paura che paralizza il presente. Quella di chi è consapevole dei rischi di un modello di sviluppo che fa passare in cavalleria rapporti come quello dell’International Panel on Climate Change, che enumera, con tutte le verifiche scientifiche possibili, i rischi devastanti della strada che abbiamo imboccato e che ci ricorda brutale quanto sia sempre più difficile cambiarla. Quella di chi chiama la politica a un assunzione di responsabilità verso i suoi elettori di domani, non solo in ambito ambientale, che ricorda alla politica quanto stia sistematicamente violando il patto generazionale su cui si regge ogni società organizzata.
Per questo, forse, varrebbe la pena occuparsi più di Greta Thunberg, che dei gilet gialli, anche se la sua protesta non riempie le piazze e non mette a ferro e fuoco un bel nulla. Perché Greta si è messa in testa di cambiare il mondo, mentre i gilet gialli vogliono evitare che cambi. Perché Greta ha in testa il bene comune, suo, dei suoi figli, dei suoi simili ovunque nel mondo, mentre i gilet gialli, per quanto sia legittimo farlo, hanno in testa solo il loro portafogli, o la loro bolla carburante. Perché se ci fossero più Greta Thunberg forse i gilet gialli non ci sarebbero nemmeno. O forse, chissà, protesterebbero assieme per chiedere uno sviluppo più equo e più sostenibile. Perché è lei la vera minaccia allo status quo, non loro.