di Giuseppe De Pietro
Le cicale, insetti della famiglia delle Cicadidi e famose per il loro proverbiale “canto” in realtà emettono un suono piuttosto stridulo tipico delle calde giornate estive.
Quand’ero ragazzo, – mio nonno Pino mi raccontava- “mi piaceva molto ascoltare il canto delle cicale. Allora abitavamo in campagna in Calabria; e, d’estate, c’erano dei giorni, quando la calura si faceva insopportabile, che tutta la campagna era un concerto di questi piccoli insetti alati dal corpo bruno: un concerto fatto di suoni striduli, raramente variati, che esprimevano però assai bene lo straniamento dell’ora quando la canicola ardente ti attira nel suo cerchio di fuoco”. Non tutte le cicale cantano però: sono gli esemplari maschi, il cui corpo è dotato di particolari organi – i timballi, posti alla base dell’addome – a produrre quel suono comunemente definito canto.
“Se, mio caro nipote, -dice mio nonno Pino- quando sarai grande, tu e tuo fratello Flavio, qualche volta, d’estate, venendo qui nel Parco di Aguzzano proverete, durante le ore più calde del giorno, a sdraiarvi all’ombra di un albero e ad abbandonarvi al frinire roco delle cicale, forse sentirete anche voi allora come qualcosa di indefinibile impadronirsi di voi, del vostro cervello, della vostra anima, qualcosa che è insieme sogno e sonnolenza, abbandono e magia”.
“Il canto delle cicale, dunque, era parte, (quand’ero ragazzo e ancora negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza), di quelle piccole cose che suscitavano sempre in me un piacere assai intenso, fatto di sensualità e ricerca di purezze ancestrali. Proprio così: sentire con il cuore le tante piccole cose che ti offre la natura è dare gioia alla vita! Ancora oggi, del resto, che gli anni non sono più verdi, se pure non provo le stesse intense emozioni di una volta, mi piace ascoltare il coro delle cicale che arriva fino a me dai tanti alberi qui, proprio davanti alla mia casa al Parco di Aguzzano.
“Ma, ahimè!, mio caro nipotine, questo grazioso insetto bruno che impiega anni per passare dallo stato di larva a cicala e che a me piaceva, nei periodi che andavo a casa dai nonni, anche cacciare (ma per lasciarlo libero appena dopo la cattura).
Del resto, basta guardare al significato che hanno parole come cicalare, cicaleccio o cicala riferita a persone (di solito donne) per capire quanto sia estesa e radicata questa cattiva fama.
Ma voi direte: ci sarà pure un motivo dietro una così poco lusinghiera, e tanto largamente diffusa, opinione nei confronti delle cicale. Eh, sì! Avete ragione. Dietro c’è sicuramente la favola narrata tanti secoli fa da Esopo sulla cicala e la formica, poi ripresa e raccontata di nuovo tante volte nel corso dei secoli. Ricordate?
La cicala, quando arriva l’inverno, va dalla formica e chiede del cibo. E quella risponde: “Ma perché non hai fatto provvista anche tu, questa estate?”. “Non potevo, si giustifica la cicala, dovevo cantare le mie melodiose canzoni”. “E tu balla, adesso che è inverno, le fa di rimando la formica, se d’estate hai cantato”.
Ai greci tuttavia, nonostante Esopo, le cicale piacevano. Le donne usavano mettere cicale d’oro nelle loro pettinature, molti, quelle vere, se le portavano in casa, dentro piccole gabbie, per sentirle cantare, i bambini poi erigevano minuscole tombe per le loro cicale rapite da Persefone spargendo polvere su di esse; e il citarista Eunomo, come racconta in un suo epigramma Paolo Silenziario, un poeta greco del VI secolo dopo Cristo, offre in dono ad Apollo una cicala di bronzo per la vittoria riportata in una gara di cetra: fu infatti la cicala, quando la corda si spezzò, a saltare sulla cetra e con mormorio dolce prese il suono / della corda spezzata. E quella voce / agreste, che s’udiva strepitare / nei boschi, si mutò in suono di cetra.
Lo stesso Omero non era da meno degli altri nell’apprezzare il canto delle cicale. Egli paragonava addirittura i saggi raccolti attorno a Priamo proprio alle cicale dalla voce fiorita, volendo con ciò fare un complimento ai consiglieri del venerando re troiano.
La funzione del canto delle cicale è sessuale: il suono, emesso dal maschio, serve per richiamare l’attenzione della femmina. E’ dunque rarissimo udire il canto delle cicale d’inverno: la stagione dell’amore, infatti, è l’estate! Ma chi di loro ha parlato in un modo tutto speciale è stato Platone. Secondo il grande filosofo greco, che aveva animo di poeta, le cicale partecipano del mondo divino delle Muse e presenziano all’ora afosa del meriggio, quando il demone meridiano penetra nella mente sonnacchiosa dell’uomo e la sconvolge, le cicale anzi sono, con il loro canto che molce chi le ascolta, come le sirene che distolgono gli uomini dal loro cammino, perciò bisogna stare attenti a non lasciarsi istupefare dalla loro presenza.
Per Giunone, dice Socrate usando l’italiano un po’ arcaizzante ma proprio per questo affascinante di Francesco Acri traduttore del dialogo, bel luogo quieto! Questo platano distende i suoi rami ed è alto; e questo agnocasto alto anch’esso, co’ la sua ombra, è bellissimo; ed è in sul rigoglio della fioritura, sì ch’egli è qui tutto un odore. E vaghissima è la fonte d’acqua che scorre sotto il platano; ed è, come si sente ai piedi, molto fresca… E, se altro vuoi, questo venticello d’estate piacevole è assai, e dolce; e risponde con il mormorio suo lieve al coro delle cicale. Ma una bellezza poi è l’erba che pianamente dechina, sì ch’ella par fatta proprio a ciò che un che ci si sdrai, posi bene il capo. Ma Platone, nel prosieguo del dialogo, torna ancora altre due volte, e non solo con degli accenni, sul canto delle cicale.
Socrate e Fedro sono nel bel mezzo della loro lunga e impegnativa conversazione sulla bellezza e l’amore e non s’accorgono del passare delle ore, ma ecco! il meriggio comincia a incombere, la calura estiva è sempre più una cappa di piombo e la voglia di approfittare, complice il coro insistente delle cicale, della bellezza e della frescura del luogo, lasciandosi andare a un riposante sonnellino, tenta in modo quasi irresistibile i due, mettendo a rischio, come dice Socrate, la ricerca della verità.
Ma Socrate resiste alla fascinazione così piena di ammiccamenti magici della stagione e del mezzodì che sovrasta; e sprona Fedro a non farsi irretire, neanche lui, dal canto delle cicale e a non abbandonarsi perciò al piacere del sonnecchiare per pigrizia della mente, piacere servile per il quale le cicale li irriderebbero. Esse ci stanno osservando, fa sapere Socrate al suo interlocutore, cantando in sul nostro capo e ragionando, pertanto bisogna che anch’essi continuino a ragionare, non solo per cercare la verità ma anche per potersi guadagnare il premio che le cicale hanno ricevuto dagli dei per darlo agli uomini.
Le cicale quindi, secondo Platone, sono anche filosofe, per la loro capacità di ragionare. Ma il loro canto ha anche la forza del canto delle sirene e occorre quindi stare sempre sul chi va là per sottrarsi alla trappola della irrazionalità presente nel canto. Come Ulisse, che sceglie sì di ascoltare il canto delle sirene che gli uomini / stregano tutti, chi le avvicina, ma facendosi legare all’albero della nave per non lasciarsi stregare anche lui, dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni: Si conta, narra Socrate, che un tempo le cicale erano uomini, prima che fossero nate le Muse; nate le Muse, la prima volta risonando per l’aria il canto, quelli furon così dal piacer presi, che, messisi a cantare, non curarono di cibo e bevanda, e, non accorgendosi, si morivano. E allora venne da essi la famiglia delle cicale, le quali ebbero dalle Muse questo premio, di non aver niente bisogno di mangiare e di bere, e, così vuote, di cantare non sì tosto che elle son nate infino a che non son morte, e dopo andare alle Muse a recar le novelle qual di quaggiù a quale di loro fa onore. A Tersicore contan di quei che onorano lei ne’ cori, e fanno che le sian più cari; a Erato, di quei che onoran lei nelle cose d’amore, e così simigliantemente alle altre, a ciascuna secondo la speciale dignità sua; e all’antichissima Calliope, e ad Urania che le vien dopo, contan di quei che filosofando passano la vita onorando la lor musica… Per molte ragioni, dunque, s’ha a dire qualche cosa, e non si ha a dormire a mezzogiorno.
Le cicale, dunque, sono, per Platone, anche tramiti tra l’uomo e le Muse, e simbolo anch’esse, per il loro canto, della bellezza; e questa è la ragione del posto particolare che esse occupano nella considerazione del filosofo greco.
Ma che dire a questo punto, mio caro nipotine Leonardo? Dopo aver ascoltato dalla voce di Socrate un mito così bello, non possiamo che far nostra la conclusione che ci suggerisce lo stesso Platone: la poesia, il canto, la filosofia appartengono al mondo degli dei e sono sotto la protezione delle Muse e danno senso e gioia alla vita
Ma se non ci fossero anche le cicale, sia pure con il loro canto roco, come lo definiva Virgilio, la vita sarebbe grigia e vuota e le nostre emozioni resterebbero inespresse e si trasformerebbero, anzi, anch’esse in fatica e sudore.
Anche il loro canto, come ogni altro canto, è un dono degli dei, che ci aiuta a sollevare lo sguardo dalle brutture della vita, a darle un senso e una prospettiva, a migliorare la condizione dell’uomo e, come scrive Ovidio nelle Metamorfosi, a volgere il viso verso le stelle e guardare il cielo, guardare il futuro.